Elaborazione grafica del Foglio

La rete unica di Mario Draghi e Giorgia Meloni

Claudio Cerasa

Dopo le parole sul caro energia (no, niente scostamento) e dopo le parole su Piombino (su, facciamolo questo rigassificatore) c’è una nuova simmetria: il sì condiviso alla vendita della rete di Tim. Indagine su una svolta (e su Ita...)

Il titolo di questo pezzo, se preso non alla lettera, potrebbe trarre in inganno e potrebbe lasciare intendere che tra Giorgia Meloni e Mario Draghi ci sia un legame, una rete, un filo, persino un patto implicito. Nulla di più falso, come ha mirabilmente raccontato ieri Salvatore Merlo: non esiste nessun patto, per il momento; esiste semmai una convenienza reciproca, tra il premier di oggi e forse quello di domani, a trovare punti di incontro che possano aiutare l’Italia a mantenere salda la sua agenda dei doveri. Eppure, se si isolano alcuni dossier di carattere economico, si scopre che su almeno quattro terreni, non indifferenti, l’agenda Draghi e l’agenda Meloni presentano alcuni punti di contatto. Involontari, forse, ma certamente interessanti.

Non serve uno scostamento di bilancio per governare la crisi energetica, dice Mario Draghi e dice anche Giorgia Meloni. Il rigassificatore di Piombino, dice ora Giorgia Meloni, se proprio bisogna farlo facciamolo, come chiede da mesi il premier Mario Draghi. Convergenze parallele, forse involontarie, che diventano convergenze gustose quando Meloni spiffera ai suoi interlocutori che in caso di vittoria alle elezioni proporrà un ministro dell’Economia più simile a Daniele Franco che a Paolo Savona. E che diventano convergenze vere, ancora, quando si arriva a parlare di un altro dossier importante che potrebbe essere l’ultimo vero lascito, dopo Ita, del governo Draghi: la rete unica, per l’appunto. E qui la storia è interessante.

 

A inizio agosto, attraverso la voce di Alessio Butti, responsabile del dipartimento Tlc di Fratelli d’Italia, il partito di Meloni aveva fatto sapere di essere disposto a tutto per bloccare il progetto di rete unica a cui il governo Draghi lavora da un anno e mezzo. La rete unica, sosteneva Butti, non si deve fare perché la rete deve rimanere dentro Tim e perché Tim  deve essere nazionalizzata. Passano alcuni giorni e  Meloni si confronta, vis-à-vis, con alcuni collaboratori del presidente del Consiglio, che provano a spiegarle perché nazionalizzare Tim attraverso Cdp, trasferendo dentro Tim la rete unica, sarebbe un problema enorme. Un po’ perché in questo modo lo stato dovrebbe accollarsi anche un debito di svariati miliardi di Tim (il debito lordo di Tim è pari a 28 miliardi di euro). Un po’ perché un’operazione del genere costringerebbe i governanti del futuro ad aprire complicati contenziosi con l’Antitrust europea. Risultato: Meloni, improvvisamente, durante il mese di agosto, si dice disponibile a non sabotare il progetto che dovrebbe prendere forma prima della data delle elezioni.

In sintesi: Cdp acquista da Tim la rete unica, insieme con Sparkle, e crea un’unica società all’interno della quale confluisce Open Fiber, controllata al 60 per cento da Cdp e al 40 per cento dal Gruppo Macquarie, un fondo australiano, a cui potrebbe affiancarsi anche il fondo americano Kkr (che a fine maggio ha firmato con Cdp, Tim, Open Fiber e Macquarie il memorandum per dare vita alla rete unica entro cinque mesi da quella data). Obiettivo: permettere a Tim di fare cassa e rendere la rete, con i suoi dati sensibili, un patrimonio dello stato. Draghi è d’accordo, convinto che dare allo stato il controllo della rete unica sia strategico per l’interesse nazionale, e lo è anche Meloni, convinta che togliere la rete dalle grinfie degli azionisti stranieri possa essere un interesse del paese (Vivendi è il primo azionista di Tim). La rete unica, salvo sorprese, potrebbe dunque fare nuovi passi in avanti, nei prossimi giorni, e la convinzione del presidente del Consiglio è che anche il possibile matrimonio di Ita con il fondo Certares, Delta e Air France potrebbe essere salvaguardato da un eventuale governo Meloni per una ragione politica e una diplomatica. La ragione politica è facile: mettere l’ex Alitalia in condizioni di sicurezza è un problema in meno per chi andrà al governo. La ragione diplomatica è meno scontata: Giorgia Meloni, per il suo futuro, ha un disperato bisogno di coltivare buone relazioni con gli Stati Uniti e sabotare un accordo sottoscritto dalla ex compagnia di bandiera italiana con due potenze americane come il fondo Certares e Delta potrebbe essere per un eventuale governo Meloni un’operazione non semplice da realizzare. Si dirà: ma perché Meloni ha così bisogno degli Stati Uniti? Perché la sua legittimazione futura passa da un rapporto speciale con l’Amministrazione americana? E che c’entra il rapporto con l’America con il suo futuro e anche con quello di Salvini? Questa è  un’altra storia sfiziosa: vale la pena raccontarla con calma. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.