A un certo punto nel salone dove si chiacchiera e si bivacca, in Senato, arriva anche Marco Rizzo. E’ il segretario del partito comunista. “Ne ho viste tante di scissioni”, dice. “Ma di così cretine mai”, aggiunge. E lui di queste cose ha una certa esperienza. Non per niente è di sinistra. Il fatto è che Luigi Di Maio lascia il Movimento cinque stelle perché Giuseppe Conte minaccia di non votare una risoluzione sull’invio delle armi in Ucraina, ma alla fine l’ex avvocato del popolo, dopo strepiti, dichiarazioni, insulti, botti, petardi e montagne russe, quella risoluzione la vota. “E allora esattamente perché si separano?”. Boh. “L’Ucraina qui c’entra poco”, dice Pier Ferdinando Casini. “Il problema è il futuro di Luigi”, precisa Paola Taverna (che ha un piede rotto e le stampelle: è stato Giggino? “No, so stati i scii”). Ma resta il fatto: causa e conseguenza, nel mondo a cinque stelle, non sono quasi mai in limpido rapporto tra loro. Il che non è precisamente né una novità né una notizia. Ma tant’è. In sostanza, al termine di una giornata tanto calda quanto inutile in Senato, tra ascelle pezzate e gravatte troppo strette, si è avuta anche la prova definitiva della veridicità di quell’antico e famoso detto che recita così: gli atti non avvenuti provocano una catastrofica mancanza di conseguenze. E dire che in mattinata il ministro Stefano Patuanelli, ormai amicissimo di Conte, faceva discorsi drammatici e vagabondi: “Chissà se sarò ancora ministro stasera”.
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