(foto Ansa)

L'Europa secondo Giorgia Meloni

Giorgia Meloni

Scommettere su un modello confederale. Investire su una Ue che non travalichi i limiti delle sue competenze. Non avere paura della deterrenza militare. La leader di Fratelli d’Italia risponde al manifesto di Enrico Letta

Sul Foglio di lunedì, il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha presentato un manifesto in sette punti per provare a disegnare l’Europa del futuro. Letta ha proposto a livello comunitario procedure decisionali a maggioranza, anche qualificata, ma senza veti e ha formalizzato l’idea di una Confederazione degli stati membri come anello più largo rispetto all’Unione europea. “L’Europa – ha scritto Letta – va cambiata e resa all’altezza della sua missione storica e delle aspettative dei cittadini”. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e presidente del Partito dei conservatori e riformisti europei (Ecr), ha scritto per il Foglio una risposta. La trovate qui di seguito.

 

Caro direttore, ho letto con interesse l’intervento di Enrico Letta sull’Europa pubblicato sulle vostre pagine. Ho deciso di rispondere, perché amo il confronto e soprattutto non sopporto i pregiudizi e le etichette che consentono troppo spesso a chi ha argomenti deboli di non confrontarsi nel merito.  Ne sappiamo qualcosa noi di Fratelli d’Italia, troppo spesso etichettati come un partito antieuropeista. Noi che siamo assoluti protagonisti in una storica famiglia politica, quella dei Conservatori europei (Ecr) che guidiamo a livello di partito, di gruppo parlamentare europeo e presto anche di Comitato delle regioni dell’Ue. Insomma, non si può dire che in questi anni il nostro ruolo in Europa sia stato quello di chi gioca al “tanto peggio, tanto meglio”. Sarebbe stato persino facile farlo, evidenziando ogni giorno le tante storture di un’Unione che per troppo tempo non ha saputo rappresentare un valore aggiunto per i propri cittadini. E invece abbiamo scelto la strada dell’approfondimento, come spesso ci capita di fare, e dell’affermazione di un’idea di Europa alternativa rispetto a quella che l’Ue ha costruito finora. Un’Europa confederale, rispettosa della sussidiarietà e delle sovranità nazionali, che faccia meno cose ma le faccia meglio. 
La stupirà leggere che apparentemente c’è più di un punto di contatto tra il pensiero di Enrico Letta e il mio.


E’ vero, è tempo di un’Europa forte. Ed è vero, serve un’anima a questa Europa. Ce lo impongono la storia e la cultura dell’Italia, che insieme all’antica Grecia può essere definita la culla della civiltà europea. Ce lo impongono le sfide del futuro che rischiano di essere condizionate in maniera decisiva e forse irrimediabile da quelle del presente, a partire dalla brutale e ingiustificata aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina.  E’ su come realizzare questa “Europa forte” e su quale sia quest’anima che la mia visione e quella del segretario Pd divergono inesorabilmente.
Ma prima di entrare nel merito dei punti sollevati da Letta mi permetta di sgomberare il campo da un equivoco che, per amor di propaganda, la sinistra continua ad alimentare. Se l’Europa il 24 febbraio si è presentata all’appuntamento con la storia senza una politica estera e una difesa comuni, quasi totalmente dipendente sul piano energetico e delle materie prime, con catene del valore troppo lunghe e in buona parte delocalizzate, impreparata nella gestione umanitaria e divisa sulla tempistica delle sanzioni, non è per responsabilità dei pericolosi conservatori o dei terribili sovranistiLa responsabilità è del duopolio popolari-socialisti che ha fin qui governato l’Europa, consegnandola all’irrilevanza, e delle élite autoproclamatesi “europeiste” che lo hanno assecondato.


Per noi le origini di questa irrilevanza sono chiare: il processo di integrazione ha tradito lo spirito originario perché ha messo al centro i mercati e la finanza e non le persone, ha puntato a livellare le identità dei popoli anziché valorizzarle. L’Ue ha abbracciato l’agenda politica globalista, ultra-ambientalista e arcobaleno. In un continente sempre più vecchio e in declino dal punto di vista demografico, invece di mettere al centro la famiglia e la natalità, sostenendo per davvero le donne, l’Ue continua a travalicare i limiti delle sue competenze cercando di intromettersi in temi che dovrebbero rimanere esclusiva competenza degli stati membri come il diritto di famiglia e l’educazione dei figli. 
Pur sapendo che il nostro continente contribuisce solo in minima parte alle emissioni inquinanti, invece di assicurarsi che giganti quali Cina e India rispettino le nostre stesse regole (perché il mercato può essere libero se è anche equo),  Bruxelles chiede alle nostre aziende di adeguarsi ai vincoli sempre più stringenti del “Green Deal”, che incidono negativamente anche sulla nostra capacità di produzione alimentare, mentre le nostre eccellenze vengono colpite con iniziative deleterie come il famigerato Nutriscore. 
Questa non è un’Europa che unisce, ma che divide. E noi italiani, che abbiamo pagato e paghiamo queste scelte più di altri, dovremmo essere compatti nella denuncia di queste storture. Invece da noi, quando auspichi che l’Italia difenda i suoi interessi nazionali come sanno ben fare Francia e Germania, diventi un pericoloso sovranista antieuropeo. E il paradosso è che chi accusa noi, allo stesso tempo difende l’atteggiamento della Francia e della Germania, considerate campionesse di europeismo. E’ solo uno degli innumerevoli corto circuiti culturali della sinistra.    
Eppure, il doppio choc causato dalla pandemia e dalla guerra può generare un’opportunità di ripensamento. Sperando che non sia troppo tardi.


Dopo anni di pubblica gogna, oggi in Europa tutti si riscoprono fautori del concetto di sovranità, seppur declinato in chiave europea, come se esistessero una sovranità buona (quella europea) e una cattiva (quella nazionale). Dopo decenni passati a ingigantire un mostro burocratico che ha finito col normare ogni più piccolo aspetto della nostra quotidianità, oggi tutti lamentano la carenza di un’Europa politica. E mentre per troppo tempo ha imperversato una retorica pacifista, nella quale peraltro lo stesso Letta ricade, oggi tutti scoprono che quell’Europa politica dovrebbe persino essere armata, perché quando hai a che fare con una guerra alle porte di casa non basta la tua presunta superiorità morale e non bastano nemmeno le sanzioni, a maggior ragione se non sei padrone a casa tua: serve la deterrenza, che solo un’adeguata capacità militare può dare. E ancora, dopo anni trascorsi a discutere di parametri finanziari e a fare dell’Europa una mera piattaforma in un mercato globale senza regole, convinti che la “mano invisibile” della mondializzazione avrebbe portato benessere e democrazia ovunque, ora tutti si rendono conto di quanto sarebbe stato più opportuno mantenere in Europa le nostre produzioni e i nostri settori strategici, limitando la nostra dipendenza dai paesi terzi. I quali, peraltro, ormai sono in gran parte autocrazie politicamente instabili quando non palesemente ostili, che in questi anni approfittando della nostra debolezza e della nostra leggerezza si sono rafforzate sul piano economico e sono involute su quello istituzionale. E infine, dopo anni passati a demonizzare chiunque osasse chiedere di distinguere i migranti economici (che certo vanno trattati con umanità ma non possono essere accolti tutti e indiscriminatamente) dai profughi che scappano dalla guerra, ecco che oggi proprio le nazioni più criticate sono in prima linea nell’accoglienza di donne e bambini ucraini in fuga.
Insomma, Direttore, ci potremmo limitare a dire “avevamo ragione noi” e non Letta, Macron e la Merkel. E’ giusto dirlo e sarebbe difficile da confutare. Però non voglio sottrarmi alle sfide che il segretario del Pd immagina per l’immediato futuro, sforzandoci di non ripetere gli errori del passato.
La Conferenza sul futuro dell’Europa, che Letta richiama più volte con enfasi, rischia purtroppo di essere una grande occasione persa, perché porta con sé un vizio di origine: un risultato preconfezionato avallato da qualche centinaia di volenterosi cittadini, che però di certo non possono rappresentare 450 milioni di europei.


Dobbiamo avere il coraggio di guardare la realtà del nostro continente per quella che è e non per quella che vorremmo fosse, come invece quasi sempre fanno i federalisti europei, per i quali la risposta ai problemi comuni è sempre la stessa: “più Europa”. Il rischio della loro impostazione dogmatica è che, invece di rafforzare il sogno di un’Europa dei popoli unita, forte e libera, finiscano per indebolirlo fino a distruggerlo. Del resto, qualche avvisaglia da questo punto di vista l’abbiamo già avuta. Quando il Regno Unito entrò nell’allora Comunità europea, nel 1973, lo fece in un certo senso per “costrizione”. Riteneva, cioè, che non ci fosse crescita possibile fuori dal progetto unificatore. Oggi ne esce perché, evidentemente, ritiene che non ci sia crescita possibile dentro il progetto unificatore. Davvero nessuno si pone questo problema? 
Al di là dell’auspicio politico di una Europa più integrata nei sette campi individuati da Letta, noto che le modifiche di architettura che il segretario Pd propone vanno proprio ad accentuare quel rischio.


Le ultime settimane ci hanno dimostrato che, quando c’è la volontà politica, si può fare tutto e che gran parte di quello che non è stato fatto in questi anni non ha nulla a che fare con il diritto di veto in seno al Consiglio europeo. E se oggi c’è una forte diffidenza da parte di alcuni governi verso una modifica dei Trattati che istituisca il voto a maggioranza su alcune materie decisive, è proprio perché negli ultimi anni i Trattati sono stati forzati per colpire gli avversari politici, eletti democraticamente a capo delle loro Nazioni. Non è assurdo che, nel pieno del conflitto ucraino, quando l’Europa e l’Occidente dovrebbero premurarsi di avere più alleati possibile, il giorno dopo la riconferma di Viktor Orbán a furor di popolo, la Commissione Ue si metta a rilanciare le procedure contro l’Ungheria per le presunte violazioni dello stato di diritto? E’ normale un’Ue che, anziché accettare il responso democratico, utilizzi regole forzate per punire i cittadini di una nazione sovrana per aver votato il presidente “sbagliato”? E, badate bene, non lo dico perché sono “amica di Orbán”, come piace semplificare a tanta stampa italiana, ma perché credo che, se l’Europa vuole avere un futuro e non regalare pezzi della sua storia al “nemico”, deve farlo sulla base del consenso e non dell’arroganza o del ricatto. Chi ci da la garanzia che, un domani, quella stessa arroganza non venga utilizzata contro altri governi legittimi e che una riforma dei Trattati che vada in quella direzione non si trasformi in un ulteriore strumento per punire o premiare i popoli in base a come votano, anche qui in Italia? Purtroppo nessuno, perché invece è proprio lì che si vuole andare a parare. E del resto, non ho mai sentito Enrico Letta opporsi alle teorie strampalate di quelli che dichiarano pubblicamente che “l’Europa non consentirebbe in Italia la formazione di un governo guidato da Fratelli d’Italia”. Cioè a dire, la sovranità appartiene al popolo, ma solo se il popolo vota come vuole l’Europa. Strano concetto di democrazia, non crede? 


E ancora, Letta propone un modello confederale per tenere vicini gli stati che ambiscono ad aderire all’Ue in attesa del compimento del processo formale. Come detto, io sono fautrice di un modello confederale per l’attuale Unione a 27, che invece a sinistra vorrebbero sempre più federale, cioè con una sempre più forte cessione di sovranità dagli stati membri a Bruxelles. Una strada che reputo sbagliata, perché divide e non unisce. Non ho invece preclusioni a ragionare di come meglio avvicinare quei popoli che vogliono essere parte di un progetto europeo. A patto però che si chiariscano bene i confini di questo percorso. Ad esempio, oggi si immaginano corsie preferenziali per la martoriata Ucraina, che condivido, ma da anni teniamo a bordo campo nazioni, come la Serbia, che nel frattempo hanno stretto sempre di più le proprie relazioni con Russia e soprattutto Cina, che nei Balcani occidentali sta investendo molto, approfittando della colpevole assenza di molti, tra cui l’Italia. E intanto si continua a tenere aperta la procedura di adesione della Turchia di Erdogan che, prima di provare a ergersi a mediatore nel conflitto ucraino, ha ripetutamente avuto atteggiamenti ostili contro l’Europa e alcuni suoi stati membri. Cosa facciamo in situazioni come queste?
Dove arrivano i nostri confini? Chi sono i nostri amici, chi sono i non amici ma partner necessari, chi sono i competitor e chi ancora i “nemici” di lungo periodo? 


Perché, prima di parlare di come modificare i trattati o di come coinvolgere nel progetto europeo gli stati del vicinato, dovremmo sforzarci di ritrovare quello che il Papa emerito Benedetto XVI ha definito “un’identità e una missione” per l’Europa.
Che cosa vuole essere oggi l’Europa? Uno spazio di democrazia liberale formale che persegue un’agenda politico-ideologica (dai tratti non sempre liberali, peraltro)? Il più grande mercato integrato plurinazionale che si confronta con altri mercati? Perché se è solo questo, a me francamente piace poco e non basta.
Noi crediamo invece che l’Europa debba sforzarsi di essere una democrazia di valori, che quei valori risiedano nelle nostre radici classiche e cristiane, che forti di quei valori dobbiamo proporre un progetto rispettoso delle identità nazionali e che, forti di quel progetto, dobbiamo porci come un attore globale per difendere gli interessi dei nostri cittadini. Che è esattamente quello a cui dovrebbe servire l’Unione europea.

presidente di Fratelli d’Italia