Matteo Salvini (LaPresse) 

Perché Salvini vince solo con Draghi

Claudio Cerasa

Tentazioni pericolose, mosse avventate, nostalgie gialloverdi. Il leader della Lega ha creato le condizioni giuste per perdere con ogni risultato. Indagine su un leader da zeru tituli, ostaggio delle sue contraddizioni

Il capolavoro tattico di Matteo Salvini, se così si può dire, è quello di essere arrivato all’appuntamento forse più importante della sua carriera politica – la sua prima volta cioè da kingmaker nell’elezione di un capo dello stato, un capo dello stato che salvo sorprese attraverserà tre legislature – nella condizione di chi sa bene che, quale che sia l’esito della quinta e forse decisiva votazione, ci potrà essere un solo risultato capace di consegnare una vittoria piena all’attuale federatore del centrodestra: il sì a Mario Draghi. Le trattative intavolate negli ultimi giorni dal leader della Lega, trattative che ieri prima hanno puntato a sabotare la candidatura di Pier Ferdinando Casini e che poi hanno puntato a cercare disperatamente una candidatura tecnica diversa da quella di Draghi, hanno mostrato con la severità di uno stress test una dinamica ormai strutturale della leadership salviniana: l’incapacità, da parte di Salvini, di trovare un modo per non essere costantemente vittima delle sue stesse contraddizioni.

   

Per Salvini, la contraddizione numero uno, neanche a dirlo, è quella di aver trasformato per molti giorni la competizione quirinalizia in un’occasione non per dare un seguito alla svolta impressa alla Lega partecipando al governo Draghi, cosa che sarebbe avvenuta intestandosi da subito la candidatura dell’attuale premier come da giorni chiedono i governatori della Lega, ma in un’occasione utile per provare a emanciparsi dalla parentesi europeista e riformista aperta poco meno di un anno fa con la fiducia all’ex governatore della Bce. E’ una contraddizione non da poco che ha permesso a Salvini di trasformare quella che sarebbe stata una mossa vincente, intestarsi Draghi piuttosto che subirlo, in una mossa che improvvisamente rischia di apparire come perdente: arrivare magari su Draghi solo per disperazione. Salvini, oggi, rischia di perdere qualsiasi cosa succederà sul Quirinale. E il leader della Lega deve essersene accorto con chiarezza ieri pomeriggio quando ha iniziato a sfogliare per l’ultima volta i petali della sua rosa (petali sistematicamente bruciati, con minuziosa attenzione, da Giorgia Meloni, che nel centrodestra, insieme con Giovanni Toti e Luigi Brugnaro, ha lavorato a lungo per tentare di tenere in piedi la candidatura del premier). E di fronte ai petali Salvini non può non aver notato il numero di problemi da lui stesso creato.

 

Problema numero uno: come può permettersi Salvini di eleggere come capo dello stato un parlamentare del Pd, come Pier Ferdinando Casini, dopo aver passato mesi a dire che il centrodestra “ha le carte giuste per la scelta di un presidente della Repubblica senza tessera del Pd”? Ovviamente no.

 

Problema numero due: come può permettersi Salvini di eleggere come capo dello stato un uomo delle istituzioni come Giuliano Amato (“Quando Berlusconi ipotizza Giuliano Amato presidente a me vengono i capelli dritti sulla testa”, disse proprio Salvini alcuni anni fa) che la Lega ha per molti anni contribuito a trasformare in un simbolo della casta?

 

Problema numero tre: come può permettersi Salvini di eleggere come capo dello stato un tecnico (con tutto il rispetto per il magnifico Sabino Cassese e la magnifica Elisabetta Belloni) che non avrebbe altra caratteristica se non quella di essere la tessera numero uno del partito del tutto tranne Draghi?

 

Problema numero quattro: come può permettersi Salvini di incartarsi al punto da aver reso non impossibile ieri pomeriggio un ritorno al nome di Mattarella, carta che dimostrerebbe l’incapacità del centrodestra di giocare un ruolo da kingmaker anche quando i numeri glielo consentirebbero?

 

Problema numero cinque: come può permettersi Salvini di lavorare a una candidatura simile a quella di Franco Frattini che avrebbe come unico obiettivo quello di far rivere la vecchia stagione gialloverde (Giuseppe Conte mon amour) dividendo l’attuale maggioranza al punto da dar vita a un draghicidio completo, che a quel punto varrebbe non solo per il Quirinale ma anche per Palazzo Chigi?

 

Salvini è ostaggio delle sue incertezze, delle sue indecisioni, delle sue contraddizioni, della sua incapacità nell’allevare una classe dirigente spendibile, affidabile e trasversale. E il risultato di fronte al quale si trova oggi la Lega è quello di aver trasformato una candidatura naturale come quella di Draghi – che era chiaro fin dal primo minuto che sarebbe stata l’unica che avrebbe per far fare al centrodestra un passo nel futuro e non un salto nel passato –  in una candidatura frutto più del lavorio degli avversari di Salvini che di Salvini stesso. Il leader della Lega avrebbe potuto vincere facilmente scommettendo subito su Draghi – l’unico tra i candidati possibili in grado di tenere insieme sia la maggioranza di governo sia la coalizione di centrodestra, capricci di Giuseppe Conte a parte – ma alla fine Salvini ha scelto di giocare una carta più sofisticata: giocare con il draghicidio, rispolverare per alcune ore i colori gialloverdi e perdere con chiunque arriverà al Quirinale pur avendo in mano le carte vincenti. E’ anche da questi particolari, direbbe forse oggi Francesco De Gregori, che si giudica un giocatore.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.