Foto di Antonio Masiello/Getty Images 

Draghi al Colle come simbolo dell'evoluzione della politica italiana

Giorgio Tonini

Per l'identikit del futuro presidente della Repubblica non è difficile fare un nome e un cognome, a cominciare da quello del presidente del Consiglio che sarebbe la soluzione ideale per coronare il faticoso cammino e non sprecare la strada fatta finora

L’elezione del presidente della Repubblica, questa volta più che mai, riveste per l’Italia un concreto significato storico. Nella scelta del nome più adatto a ricoprire la carica più alta prevista dalla Costituzione è infatti ineludibilmente contenuta una risposta alla domanda cruciale per il futuro del paese: è stata solo una parentesi? In una certa misura, il governo Draghi è certamente una parentesi: difficile pensare che l’unità nazionale e la fiducia di una base parlamentare così vasta ed eterogenea, sulle quali si fonda l’attuale esecutivo, possano durare più del mandato delle Camere attuali. Il problema è capire se, al termine di questa fase transitoria, si pensa di poter e dover tornare allo stato di fatto preesistente, o se invece si ritiene che l’esperienza delle “convergenze parallele”, attorno al governo Draghi, possa e debba restare come un’acquisizione condivisa da larghissima parte dello schieramento delle forze politiche italiane, in quanto la si considera per l’appunto uno spartiacque nella travagliata evoluzione del nostro difficile sistema politico.

 

L’attuale legislatura è stata caratterizzata dal confronto tra populismi e riformismi, nello scenario inedito prodotto dalla pandemia da Covid-19. Un confronto moderato dalla crescente autorevolezza del presidente Mattarella. Un confronto che, nella campagna elettorale del 2018 e nella fase segnata dal primo governo Conte, espressione dell’asse populista e antieuropeista tra il movimento Cinquestelle e la Lega Salvini, aveva assunto le sembianze dello scontro frontale e della tensione permanente. Il fallimento del primo governo Conte ha tuttavia aperto una fase nuova, segnata dal dialogo tra populismo e riformismo e più precisamente tra Cinquestelle e Partito democratico: un dialogo reso possibile dalla svolta maturata in Europa con l’elezione della nuova Commissione, presieduta da Ursula von der Leyen. Anche grazie al ruolo svolto dal Pd (e da David Sassoli), l’Europa ha  affiancato all’attenzione alla stabilità monetaria e finanziaria quella per la crescita e l’occupazione, a cominciare da quella giovanile.

 

Il compromesso tra populismo e riformismo, tradotto nella convergenza tra Cinquestelle e Pd nel sostegno al secondo governo Conte, ha così potuto sostanziarsi innanzitutto proprio nell’intesa sulla nuova Europa, con l’abbandono da parte dei grillini degli slogan antieuropei e la fiducia alla nuova Commissione. Il varo del grande programma europeo “New Generation EU” ha reso necessario un governo più autorevole nella sua composizione e supportato da una più ampia base parlamentare. È da questa  condivisa assunzione di responsabilità che ha tratto origine e si è affermato il governo Draghi. Come far vivere la straordinaria conquista nazionale della convergenza “degasperiana” alla base del governo Draghi, nel passaggio decisivo dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica dovrebbe essere il principale rovello di tutte le forze politico-parlamentari. Se così sarà, verrà naturale escludere qualunque scenario che comporti la rottura della convergenza su cui si fonda e che sostiene il governo. E sarà altrettanto naturale raccogliere il convergente appello dei due Letta: lo zio Gianni, che ha auspicato un voto in Parlamento che faccia tesoro della lezione di Sassoli, guardando al paese e non agli interessi di parte; e il nipote Enrico, che ha schierato il Pd sulla proposta di “giungere rapidamente a una scelta condivisa dell’arco di forze parlamentari più ampio possibile, a partire da quelle dell’attuale maggioranza”, individuando insieme “una figura di alto profilo istituzionale, che rappresenti indiscutibilmente i valori dell’unità della Nazione, e quindi non di parte”.

 

Un identikit al quale non è difficile attribuire un nome e un cognome, a cominciare da quello del presidente del Consiglio, quello che meglio può rappresentare la determinazione condivisa dell’intero arco parlamentare a non considerare il faticoso cammino, che ha portato al governo Draghi, come una parentesi da chiudere bruscamente. E ad assumerlo invece come uno spartiacque storico, da far vivere anche nelle e dopo le prossime elezioni politiche, quando auspicabilmente si confronteranno, dinanzi agli elettori un centrodestra e un centrosinistra accomunati dal riconoscimento dei medesimi, “degasperiani” valori repubblicani. E dall’aver scelto in modo convergente il loro supremo garante.

  

Giorgio Tonini, ex senatore Pd

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