(foto di Simone Canettieri)

Letta a casa di Conte per sostenere Draghi. Ma intanto Pd e M5s si spaccano alla Camera

Valerio Valentini

Il vertice dei leader rossogialli. Il segretario del Pd prova a vincere le resistente di Speranza e Conte intorno all'"opzione Super Mario". Intanto a Montecitorio i grillini seguono il centrodestra sul diritto di voto ai positivi, e il centrosinistra va in tilt. L'ira di Palazzo Chigi

Hanno scelto la casa di Giuseppe Conte, segno che a tenerlo riservato, l’incontro, c’hanno provato davvero. Non il palazzo dei gruppi di Montecitorio. Non il Nazareno e neppure gli uffici dell’Arel, il quartier generale di Enrico Letta a due passi dal Senato. Meglio la discrezione – presunta, forse perfino esibita – di via della Fontanella Borghese, il palazzo signorile dove il capo del M5s vive insieme alla sua compagna Olivia Paladino. E’ lì, insomma, che i grandi capi del campo progressista hanno stabilito il loro sancta sanctorum di giornata. 

 

 

Conte, Letta e Roberto Speranza: i tre moschettieri rosso gialli che s’incontrano di buon mattino per discutere delle strategie quirinalizie. Solo che, mentre i tre leader facevano il possibile per mostrare la compattezza della coalizione, nell’Aula della Camera quella coalizione si sfarina, proprio all’ombra del Colle: perché, su due ordini del giorno avanzati da Fratelli d’Italia e Forza Italia per consentire il voto anche ai grandi elettori positivi, a partire da lunedì prossimo, il M5s si accoda a Italia viva nel sostenere la richiesta del centrodestra, rompendo il fronte rigorista seguito invece da Pd e Leu. Tutto in presa diretta, coi deputati dem che da un lato provano a ricucire lo strappo, dall’altro chiedono informazioni del vertice dei leader.  

 

 

Il canovaccio della riunione, in verità, per quanto riservato non è esattamente indecifrabile. “Enrico dovrà fare con gli alleati del Pd quello che in fondo gli tocca fare anche dentro il Pd: e cioè convincere tutti che eleggere Mario Draghi al Quirinale sia una cosa saggia”, sintetizza, con tono divertito, un deputato del Pd vicino al segretario. E in effetti la tattica di Letta proprio quella, al momento, sembra essere. “Non possiamo mettere a rischio l’autorevolezza di Draghi”, ripete. Col che intendendo che non si può certo gettarlo nell’incognita del pallottoliere senza la garanzia di portarlo poi al Colle, ma pure lasciando intendere che non lo si può escludere a priori dalla partita, che non si può accettare una dinamica di sabotaggio esplicito, da parte delle forze che sostengono il suo governo, nei confronti del premier. L’operazione moral suasion, verso Conte e Speranza, è iniziata già la scorsa settimana, quando i tre si sono visti per una riunione preliminare. E non è detto che alla fine non produca i suoi effetti.

 

Almeno a prendere per buoni i timori di Matteo Salvini, il quale coi suoi confidenti ha prefigurato uno scenario forse improbabile, ma che comunque la Lega deve impegnarsi a scongiurare. E il ragionamento suona più o meno così: “Se Letta s’impunterà su Draghi, e riuscirà a convogliare subito sul nome del premier i voti del Pd e di Leu, a quel punto diventa difficile per tutti, per Forza Italia e anche per noi, dire di no”. Draghi per forza, insomma. La potenza dell’uomo de whatever it takes che s’afferma per inerzia sull’inconcludenza caotica del Parlamento. 

 

 

Chissà. Di certo c’è che, per paradossale che appaia, Letta sembra averceli proprio dentro il suo campo, i problemi maggiori. Perché Dario Franceschini, che pattuglia come pochi altri i movimenti del Transatlantico, ha fatto conoscere il suo scetticismo sull’opzione Draghi: “Significherebbe bloccare l’azione di governo per almeno tre mesi, mentre incombono le scadenze del Pnrr”, dice il ministro della Cultura. Che, insieme ad Andrea Orlando, paventa anche i rischi di un eventuale rimpasto, di un sovvertimento degli equilibri di governo da cui i tre ministri dem, che sono anche i tre capicorrente, avrebbero solo da perdere. Quanto al terzo ministro, e cioè Lorenzo Guerini, chi ha partecipato alla riunione della sua Base riformista, due sere fa, ha ascoltato il tono alquanto assertivo con cui Alessandro Alfieri, fedelissimo del titolare della Difesa, ha spiegato che “pur non avendo alcuna preclusione verso Draghi”, sarebbe comunque “molto meglio conservare il premier a Palazzo Chigi”. 

 

 

Poi ci sono gli alleati. Speranza, indirizzato anche da Massimo D’Alema, resta contrario al trasloco di Draghi al Quirinale. E Conte si ritrova con un M5s in perenne subbuglio che nessuno può dire come reagirebbe, di fronte a una chiamata alla fedeltà sul nome dell’ex banchiere centrale. Una confusione rosso gialla fotografata del resto in tempo reale. Perché mentre i tre leader sono riuniti a casa del fu avvocato del popolo, la coalizione rossogialla va in tilt a Montecitorio. I capigruppo di Forza Italia e Fratelli d’Italia, Paolo Barelli e Francesco Lollobrigida, presentano due ordini del giorno che impegnano il governo “a garantire ogni formula di collaborazione per garantire a tutti i 1009 delegati di partecipare al voto”, e chiedono ai presidenti di Camera e Senato di “rimuovere ogni forma di impedimento, se del caso anche attraverso un intervento di carattere normativo”. Sarebbe la sconfitta della linea rigorista tenuta finora dal centrosinistra sulla sfida del Quirinale e sui regolamenti relativi al voto. E sarebbe anche una discreta delegittimazione per un Roberto Fico che quella linea l’ha fin qui difesa. Eppure, forse anche per il timore legato all’alto numero di positivi tra le proprie file, il M5s decide di scantonare, e insieme a Iv si dice disponibile a votare gli odg del centrodestra. Se è una premessa di quel che accadrà tra qualche giorno, non è un bel segnale per Letta e Conte.

 

Alla fine la baruffa si risolve in modo quasi indolore, ma a prezzo di una retromarcia clamorosa di Pd e Leu. Che, per evitare il rischio di sfasciare l'intesa col M5s, accettano pure loro di votare a favore del dispositivo dell'odg. E dunque ora toccherà a Fico sollecitare il governo per un intervento normativo che consenta anche ai positivi di votare

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.