Roma, Atreju 21: ospite Enrico Letta segretario del Partito Democratico (Foto Cecilia Fabiano/ LaPresse) 

I convertiti dell'inciucio

Claudio Cerasa

Maggioranze larghe e intese impreviste. Da Meloni a Salvini passando per Letta e Draghi. E poi Starmer e Biden. Così il dialogo con gli avversari diventa una nuova formidabile arma del conflitto politico

È la stagione della pazienza, del compromesso, delle intese pazze, delle maggioranze larghissime, degli intrecci imprevisti, dei dialoghi inattesi e anche Giorgia Meloni, proprio lei che in passato ha riempito i palinsesti televisivi trasformando ogni tentato rapporto politico tra parti avverse nella prova di un vergognoso inciucio, oggi è lì che cerca di giustificare questo cambio di passo, questa fase di intese larghissime, denunciando, con tono grave, “questa deriva italiana per cui il rapporto tra i partiti o è la criminalizzazione o è l’inciucio”. Non è così, dice Meloni, perché, su questi temi, “c’è una gamma intermedia molto ampia”.

   

È la stagione della pazienza, e ci vuole molta pazienza anche con chi denuncia le stesse sconcezze compiute nel passato, ma nella nuova stagione degli intrecci imprevisti capita sempre più spesso, e non solo ad Atreju, di fare i conti con un fenomeno interessante da studiare che potremmo sintetizzare così: il dialogo con gli avversari come nuova arma del conflitto politico.

    

E così succede che Enrico Letta cerchi un dialogo con la nemica Giorgia Meloni per provare a mettere in difficoltà, e un po’ ai margini, Matteo Salvini (il nemico del mio nemico è pur sempre un mio amico). E così succede che, a sua volta,  sia proprio il dialogo con il Pd a mettere in crisi la Lega, che nella stagione delle intese larghissime si ritrova a essere trascinata da alcune leadership alternative e più dialoganti rispetto a quella principale (più Fedriga, meno Salvini). E così succede che anche nel M5s la capacità di dialogo con alcuni potenziali avversari (Renzi e Calenda sì o no nel campo largo?) diventi un elemento utile per perimetrare le leadership attuali (Conte) pensando a quelle di domani (Di Maio & co.).

   

   

E tutto questo succede in Italia – dove anche Draghi in fondo ha costruito buona parte della sua forza all’interno della maggioranza premiando al governo leader alternativi a quelli che si trovano alla guida dei partiti – ma in buona misura se ci si riflette un istante succede anche in altri paesi. Un esempio, naturalmente, è costituito dagli Stati Uniti di Joe Biden, dove i democratici, al Congresso, sui temi economici, hanno più volte cercato di triangolare con i repubblicani (è successo a metà novembre con il piano infrastrutture, votato anche dal Gop) anche per sterilizzare le istanze più liberal del partito (meglio dialogare con i repubblicani o con Ocasio-Cortez?).

   

Ma un esempio ancora più interessante, se si vuole, è quello che si è manifestato due giorni fa in Inghilterra, dove il premier inglese, Boris Johnson, è riuscito a varare l’introduzione di alcune misure anti Covid per far fronte alla nuova ondata pandemica solo grazie ad alcuni voti del Partito laburista. Circa cento deputati conservatori hanno votato contro il piano del loro stesso premier e in un colpo solo il leader del Labour, Keir Starmer, offrendo il suo aiuto a BoJo, dunque dialogando per un attimo con il nemico, ha raccolto tre piccioni con un’unica fava: ha mostrato la responsabilità del suo partito, ha mostrato l’irresponsabilità dei suoi avversari (i conservatori, da un lato, e il suo predecessore, Jeremy Corbyn, che ha votato contro l’obbligo vaccinale per i sanitari e il green pass: ah, i rossobruni) e ha mostrato in modo cristallino la crisi nera in cui si trova il governo inglese (“Johnson – ha detto ieri Starmer durante il Question time alla Camera dei Comuni – è il peggior primo ministro possibile nel peggior momento possibile ed è troppo debole per guidare il paese”).

      

La trasformazione del dialogo con gli avversari in una nuova arma del conflitto politico (vedi il caso anche di Olaf Scholz, nuovo cancelliere tedesco, che ha costruito buona parte del suo consenso anche grazie a una campagna elettorale impostata sulla sua non rivalità con la cancelliera uscente, Angela Merkel, appartenente a un partito diverso da quello di Scholz) sarà una caratteristica che andrà osservata con cura nei mesi che verranno non solo per capire che fine farà il Quirinale (il coro trasversalità-tà-tà ha preso il posto del coro onestà-tà-tà) ma anche per capire che tipo di traiettoria seguiranno le attuali leadership politiche.

 

E nella stagione della pazienza, del compromesso, delle intese pazze, delle maggioranze larghissime, degli intrecci imprevisti, i partiti che sembrano avere un futuro non sono quelli per così dire intransigenti, o coerenti, ma sono quelli che dimostrano, con flessibilità, di sapersi adattare a un mondo che cambia, riuscendo a poco a poco a parlare con tutti e trasformando la propria capacità di dialogare anche con gli avversarsi non nella spia di un inciucio imminente ma nel segnale di una democrazia finalmente matura.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.