Redenti e risorti: come l'avversario nella Seconda repubblica diventa l'alleato nella Terza

Francesco Cundari

Renato Brunetta, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini dalla lapidazione alla riabilitazione. Ma anche Pier Luigi Bersani, Giuseppe Conte e Gianfranco Fini. Carrellata su martirio e resurrezione nella politica italiana 

"Con la Lega ci dividono molte cose, ma si deve fare una distinzione tra Lega e Forza Italia: vedo quello che ha fatto Brunetta, che ha fatto cose che noi condividiamo, vedo che Brunetta e Orlando stanno lavorando bene, questo vuol dire che molto sta cambiando e che non dobbiamo fermarci agli schemi”, dice Enrico Letta alla stampa estera, il 16 marzo, a quarantotto ore dalla sua elezione a segretario del Partito democratico. “L’ispirazione di Brunetta è giusta, e anche coraggiosa”, dichiara Goffredo Bettini, capo della corrente più filogrillina del Pd, commentando la recente intervista del ministro della Pubblica amministrazione sulle prospettive future di una destra non sovranista e di un sistema politico ridisegnato attorno alle tradizionali famiglie socialista, liberale, popolare. “Ha letto cosa ha proposto Renato Brunetta a Repubblica?”, domanda Concetto Vecchio a Enrico Morando, leader della corrente liberal del Pd. “Brunetta è mio amico”, risponde lui, prima ancora di entrare nel merito. Comunque la pensiate sull’uomo politico che è stato a lungo tra i più intensamente detestati dalla sinistra – anche più di Matteo Salvini, forse persino più di Matteo Renzi – dovete riconoscere che Letta aveva ragione da vendere: molto sta cambiando. Non bisogna fermarsi agli schemi.

Brunetta, Gelmini ecc. Prima avversari, oggi alleati

Anche perché gli schemi, se ci fermassimo a guardarli per un momento, racconterebbero un’evoluzione dei giudizi su Brunetta, da parte della sinistra, assai interessante: una costante e uniforme tendenza a oscillare tra lo spregevole e lo schifoso, seguita da un’improvvisa e quasi altrettanto uniforme impennata verso lo statista. Evoluzione curiosa, certamente, ma non così inconsueta. Tutt’altro. Fedele anche in questo alla tradizione cattolica del paese, la politica italiana conosce infatti la demonizzazione, ma anche la redenzione. La furia della lapidazione, ma anche la gioia della rinascita. Martirio e resurrezione. Non so, avete presente Mara Carfagna? Quel che si diceva di lei, come della sua collega Maria Stella Gelmini, non c’è bisogno di ricordarlo, perché alla fine dei conti non è poi così diverso da quello che si tende a dire di tutte le donne impegnate in politica e nelle istituzioni, a destra e a sinistra. Non so, avete presente Laura Boldrini, Rosi Bindi, Elsa Fornero? In un certo senso, se sei una donna e acquisisci una qualche notorietà, indipendentemente dalla tua collocazione politica, l’eccezione è che non ti insultino. O meglio, che gli insulti non diventino il modo abituale di definirti, da parte di avversari e opinionisti ostili, sulle pagine dei principali quotidiani e nei programmi televisivi in prima serata, mica da parte di qualche commentatore su Facebook. E poi dicono che in Italia c’è la dittatura del politicamente corretto. Il caso di Brunetta è però leggermente diverso. In parte, va detto, anche per merito di Brunetta, che obiettivamente non ha mai fatto molto per farsi voler bene. Del resto, se da sinistra Massimo D’Alema non esitò a definirlo un “energumeno tascabile”, non è che a destra ci siano andati più leggeri, si trattasse di alleati, come il leader leghista Umberto Bossi, che lo chiamava “il nano di Venezia”, o addirittura di compagni di partito, come Giulio Tremonti, che gli diede direttamente del “cretino”, in un fuorionda chissà quanto involontario.

 

C’è poi la questione dell’altezza, uno dei punti di attacco favoriti nella lotta politica, almeno dai tempi di Napoleone. Il quale del resto, come è noto, non era nemmeno particolarmente basso – pare fosse alto poco meno di un metro e settanta – per lo stupore dei suoi stessi nemici, quando capitava loro di incontrarlo dal vivo sul campo di battaglia, dopo essere stati abituati per anni a vederlo rappresentato come un nano dalla propaganda inglese. Potenza della satira. Qualcosa di simile probabilmente è capitato a chi abbia incontrato per la prima volta Silvio Berlusconi, e certo non solo per merito dei famosi rialzi. Quale che sia comunque la sua statura, fisica e politica, è significativo come la questione dell’altezza sia ancora oggi un argomento non solo politicamente e socialmente accettato, ma efficace. Come persone che inorridirebbero sinceramente a sentire qualcuno definire chiunque altro storpio, monco, handicappato – o anche negro, frocio o ebreo – si sbellichino dalle risate per tutte le variazioni intorno al concetto di nano, nano malefico e psiconano, se riferite a Berlusconi o a Brunetta. Anche Berlusconi, peraltro, ha vissuto il suo brevissimo momento di redenzione, quando è sembrato contrapporsi alla destra populista di Salvini. Prima però di lanciare contro la sinistra le solite accuse di ipocrisia e strumentalizzazione, bisogna essere onesti e riconoscere che in politica, come nella vita, tutto è relativo. E dopo avere fatto la prova di un governo populista a guida grillino-leghista, con un’opposizione ancora più populista guidata da Giorgia Meloni, è anche comprensibile un filo di nostalgia per i tempi in cui, dinanzi a un naufragio sulle coste italiane, il leader della destra andava a parlare con i superstiti, si commuoveva e accusava il governo di centrosinistra di avere causato la tragedia nel tentativo di contrastare gli sbarchi. “Credo che l’Italia – dichiara Berlusconi all’Ansa, a proposito dell’incidente del 28 marzo 1997 nel canale di Otranto, in cui morirono 81 albanesi – non possa accettare di dare al mondo l’immagine di chi butta a mare qualcuno che fugge da un Paese vicino, temendo per la sua vita, cercando salvezza e scampo in un paese che ritiene amico. Il nostro dovere è quello di dare temporaneo accoglimento a chi si trova in queste condizioni”. Altri tempi.

 

L'esempio della redenzione di Gianfranco Fini

Oggi comunque tocca a loro: Brunetta, Carfagna, Gelmini. I tre ministri del governo Draghi, formalmente in quota Forza Italia, ma in verità da tempo in dissenso dal vertice e probabilmente scelti a suo dispetto, ormai decisamente incamminati sulla via della piena riabilitazione, per non dire del riscatto. Carfagna, in verità, su quella strada si era già inoltrata parecchio per conto suo, e con largo anticipo. Di Brunetta si è detto. Quanto a Gelmini, forse è ancora un po’ indietro rispetto agli altri due, ma le sue recenti prese di posizione, addirittura contro Berlusconi, dicono che ha la stoffa per rimontare da un momento all’altro. I precedenti non mancano. Del resto, si sa che in Italia la farsa si ripete sempre in forma di storia. A partire dal modello inarrivabile che nessun serio storico di queste vicende può trascurare: Gianfranco Fini, ovviamente. Esempio eccellente, perché la sua vicenda, più che una parabola, disegna un cerchio perfetto, in cui ogni ruolo e ogni posizione finisce per rovesciarsi nel suo esatto opposto, e alla fine si torna tutti alla casella di partenza. Perché, a guardarla da una certa distanza (diciamo, più o meno, dalla luna), non c’è niente di più buddista della politica italiana. Nel 1993, alla vigilia della sua famosa discesa in campo, Silvio Berlusconi desta enorme scandalo proprio per la sua dichiarazione di voto a favore di Fini, ancora leader del Movimento sociale, candidato al Campidoglio (voto ipotetico, per giunta, non essendo Berlusconi residente a Roma). Si sprecano sui quotidiani i titoli sul “Cavaliere nero”. Il salto nella prima linea della politica italiana, dopo tanti anni passati nelle retrovie, o per meglio dire nel ghetto, in un partito oscillante tra il 5 e l’8 per cento, tenuto sempre rigorosamente ai margini del gioco politico, per Fini, si compie allora. Quando il fatto che Berlusconi possa anche solo ipotizzare di votarlo è motivo di indignazione e allarme democratico. E’ lì che comincia tutto. Per finire, esattamente vent’anni dopo, alle elezioni del 2013, quando con il suo nuovo partito (Futuro e libertà) Fini non riuscirà nemmeno a entrare in Parlamento, dopo essere diventato però il simbolo e il massimo rappresentante di quella destra moderna, liberale, civile e perbene che l’Italia – l’Italia che non vota a destra, s’intende – aspettava da oltre sessant’anni.

 

La redenzione di Fini è senza dubbio la più clamorosa e spettacolare di tutte. Soprattutto pensando che per un breve momento, poco prima che il suo partito nuovo di zecca si dissolvesse nel nulla al primo contatto con le elezioni, sulla stampa progressista era partito persino un surreale dibattito sull’ex segretario del Movimento sociale come nuovo leader della sinistra. Dibattito, per essere onesti, in cui c’è più malizia che fesseria, e serve soprattutto a Renzi per ridicolizzare la strategia di Pier Luigi Bersani, che comunque ci mette del suo, con arzigogolate teorizzazioni di “alleanze a due cerchi”, alleanza democratica, alleanza di centrosinistra e ovviamente l’immancabile “Nuovo Ulivo” (che era già vecchio allora, figuriamoci adesso: ma questa è un’altra storia). Lo stesso Bersani, d’altra parte, rappresenta un caso di redenzione interessantissimo, per molti versi opposto e complementare agli altri: leader della sinistra sbertucciato come pochi, finché è stato in carica come segretario del Pd, accusato di essere burocratico, grigio, respingente, negato per la comunicazione, inservibile reperto archeologico nell’era della politica spettacolo; ora conteso da tutte le televisioni e da buona parte dei suoi odiatori di allora, ospite d’onore in tutte le feste del Fatto quotidiano e in tutti i talk show de La7, dove lo si può trovare a ogni ora del giorno e della notte intento a duettare con Marco Travaglio o con Andrea Scanzi, e qualche tempo fa persino con Alessandro Di Battista.

La riabilitazione di Conte come leader progressista

Un processo di riabilitazione populista dell’ex burocrate di partito, il suo, perfettamente simmetrico, anche se certo meno gravido di conseguenze politiche, rispetto a quello attraversato contemporaneamente, in senso contrario, da Giuseppe Conte. Nel 2018 capo dell’esecutivo battezzato dal Washington post “Western Europe’s first fully populist government”, responsabile con Salvini dei decreti sicurezza e della chiusura dei porti ai naufraghi, nel 2019 già assurto a “punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”, secondo la celebre definizione di Nicola Zingaretti, in una intervista la Corriere della sera in cui peraltro l’allora segretario del Pd non esitò a definirlo anche “autorevole” e “colto”. Quello stesso presidente del Consiglio che l’anno precedente, in un discorso alla Fiera del Levante preparato per l’occasione, aveva voluto celebrare il settantacinquesimo anniversario dell’8 settembre come l’inizio “di un periodo di ricostruzione prima morale e poi materiale”, un periodo “che è stato chiamato, con la giusta enfasi, miracolo economico”, concludendo solennemente che il suo governo aveva “l’ambizione di ricreare nei cittadini la stessa fiducia verso il futuro che allora animava i nostri genitori”. Parole cui Danilo Toninelli, Laura Castelli o Vito Crimi sarebbero stati inchiodati per anni, come lo sono stati per errori, sviste e svarioni assai meno gravi e grotteschi. Eppure nel loro caso nessuno, a sinistra, si è mai sognato di definirli colti e autorevoli. Forse perché, in fondo, non hanno mai contato molto neanche nel Movimento 5 stelle. In Italia, infatti, cultura e autorevolezza non sono necessarie per arrivare al potere, ma sono sempre incluse una volta arrivati, per tutta la durata del soggiorno.

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