l'intervista

"Cari liberali per Draghi, è ora di altre lenzuolate". Parla Bersani

Valerio Valentini

"La carrozza del premier tira a destra, purtroppo. I suoi consiglieri economici? Se Giavazzi e gli altri sono riformisti come dicono, allora ecco un elenco di cose da fare: su Cdp, sulla Rai, sui sindacati. Liberalizzare non è deregolamentare. Il Pd apra il campo. E nel semestre bianco si balla". L'intervista al leader di Articolo 1

La metafora ce la regala subito, quasi a volerci accontentare. Ma è un paragone che non lo esalta. “A guidare questo governo c’è una troika. Ma non quella di Bruxelles”, precisa. “E’ la troika di Gogol’: col cavallo di sinistra, il Pd, un poco zoppicante e quello di destra, cioè la Lega, più scalpitante. E col cavallo di centro, che sarebbe Draghi, che prova a tenere dritta la rotta su un sentiero neoliberale, e che però temo possa essere influenzato da sedicenti liberali che poco hanno a che vedere col riformismo”. Insomma eravamo venuti qui, in questo bar di Sant’Andrea della Valle, per ricordare quelle sue “lenzuolate” di quindici anni fa che restano ancora per certi versi un modello da seguire, e invece ci ritroviamo di fronte un Pier Luigi Bersani preoccupato. “E’ vero: ho fatto molto, da ministro, ma ho seminato poco. Perché in Italia non esiste un terreno propriamente liberale”.

 

La rivendicazione d’orgoglio c’è, ma come sporcata da un fondo d’amarezza, nel ricordo del leader di Articolo 1. “Se vogliamo il problema è nominalistico. Oggi si parla di liberalizzazioni ma si intende altro. Non si intende, cioè, un’azione riformatrice che difende imprese e cittadini dalle prepotenze del mercato, ma un’eliminazione tout court dei vincoli. Ho l’impressione che tanti dei sedicenti liberali di oggi scambino le liberalizzazioni con le deregolamentazioni”. Problema di lessico, insomma, ma anche di mentalità. “Problema storico, direi. Del resto viviamo un paradosso lungo venticinque anni per cui il campione del liberalismo italiano è Berlusconi: uno che, perbacco, è stato un quasi-monopolista di fatto del mercato dei media”.

 

Al che però l’obiezione viene spontanea. E viene da chiedergli, cioè, se non sarebbe proprio questa anomalia della destra italiana a concedere uno spazio di manovra alla sinistra; se non è in fondo quello lo spazio che l’ex comunista Bersani seppe occupare quando fu ministro. Non è, in fondo, anche lo spazio di Draghi, lo spazio di quei consulenti economici, come Francesco Giavazzi o Marco Leonardi, che credono che il liberismo possa essere di sinistra. “E allora io a Giavazzi vorrei dire questo. Se è di sinistra, facciamo una bella legge sulla rappresentanza sindacale?  Anche quella, in fondo, è concorrenza: i sindacati più bravi hanno la meglio nel definire i contratti di lavoro che valgono per tutti. E che forse non prolifererebbero, com’è successo negli ultimi dieci anni,  da 400 a 900. Per ciò sulla questione dei subappalti ci siamo impuntati. Ed è un bene che sia stato trovato un buon compromesso sulle opere pubbliche, estendendo le condizioni di lavoro delle ditte che vincono le gare anche ai lavoratori delle società in subappalto”. Dunque non è così di destra, questo Draghi? “E allora che aspettiamo a estendere quella norma anche ai contratti tra privati, a proposito di logistica?”.

 

Altre richieste a Giavazzi? “Certo. Il mercato che la crisi del Covid ci consegna è evidentemente stravolto. Segnalo che dovremmo vigilare su alcuni fenomeni speculativi, dietro cui s’intravedono processi di concentrazione. Nel trasporto marittimo, ad esempio, questo è ormai evidente. E penso anche, per l’Italia, a rischi di concentrazioni  nel campo delle costruzioni, delle banche, delle monete elettroniche. E poi di nomine, vogliamo parlarne?”. Eccoli, gli appetiti della politica. “No, al contrario. A me, che Draghi e i suoi collaboratori rifiutino di usare il Cencelli, fa solo piacere. Ma per la miseria: a ridosso dei cambi dei vertici delle grandi partecipate, è lecito avere un minimo di discussione in Parlamento per comprendere in che direzione vogliamo far muovere quelle aziende? Nulla contro un professionista come Dario Scannapieco, ma Cdp che mestiere deve fare? Diventare  un mero strumento finanziario? Io credo che un intervento pubblico per riequilibrare certe storture di mercato possa essere utile. Penso, tra gli altri, anche al settore turistico e alberghiero. La Rai, poi. Che cosa vuol dire, oggi, servizio pubblico? Io credo serve una struttura più snella,  ma che garantisca la promozione della libertà e della creatività italiana”.

 

E però talvolta la sinistra, su questi temi, sembra abbarbicata al totem dell’inviolabilità del “pubblico”. Anche quando, come nelle partecipate romane, il pubblico dimostra incapacità più che decennali. “Io non demonizzo la politica delle concessioni. Purché ci si intenda. Si può demandare al privato la gestione di alcuni servizi locali a patto che ci sia una mano pubblica salda e risoluta nel fare due cose: una programmazione accurata, e un’opera di controllo e vigilanza, con authority adeguate. Altrimenti si finisce come con Autostrade: col concessionario che cattura il concedente”.

 

E alla fine si ritorna all’inizio, dunque. A quella biga trainata da cavalli che corrono con diverse velocità. Perché quello del centrosinistra zoppica? “Perché manca la generosità da parte di chi, a cominciare dal Pd, dovrebbe fare una chiamata per un progetto nuovo, non con inviti uti singuli. A me l’idea del nuovo Ulivo di Letta piace, mi piacciono le Agorà, ma dobbiamo intenderci: è il centrosinistra di Bologna, quello che vogliamo, o quello di Torino?”. A Bersani, inutile dirlo, piace più quello di Bologna. “Io credo che sia impensabile ricostruire un campo largo del progressismo escludendo il M5s. Che sta attraversando una fase difficile proprio perché deve risolversi a scegliere tra una forma movimentista e una forma di partito. E’ in questo che sta la fatica di Giuseppe Conte. Non certo nella sua leadership: perché il consenso di cui gode lui e di cui godeva il suo governo è forte ed è reale”.

 

E però qui forse c’è un problema, del centrosinistra in questa nuova fase: pare quasi che viviate nel rimpianto di ciò che è stato. “Ridicolo. Il punto è che non si può non riconoscere che questo assetto di governo è momentaneo, e invece bisogna guardare la prospettiva. La ricostruzione del quadro politico non può avvenire nel perimetro dell’azione di governo, ma deve guardare alle dinamiche sociali fuori dal Palazzo. Del resto, quanto siano evanescenti certe dichiarazioni di fede a Draghi, lo vedremo all’inizio del semestre bianco”. A proposito, chi va al Quirinale a febbraio? “Di certo Salvini tifa per Draghi, perché Draghi gli dà la garanzia che un giorno dopo si va a votare. Noi, a sinistra, di questi giochi non ne facciamo”.

  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.