Dall'agenda Mazzucato all'agenda Giavazzi

Luciano Capone

Non "Stato imprenditore", ma meno tasse e più concorrenza. Se tra il governo Conte e il governo Draghi ci sono diversi elementi di continuità, un segnale di svolta sulle idee di fondo di politica economica è sicuramente rappresentato dalla scelta dei consiglieri economici

C’è chi ha addirittura accusato Mario Draghi di “plagio” perché nel suo discorso al Senato, in riferimento alla riforma fiscale, ha riportato alcuni passaggi di un editoriale sul Corriere di Francesco Giavazzi che indicava come modello la riforma fiscale danese. Evidentemente non c’è piena contezza del lungo rapporto di stima e amicizia che lega i due economisti, forgiato in America ai tempi del dottorato al Mit di Boston negli anni 70 e consolidatosi nel tempo, ad esempio a inizio anni 90 quando, in uno dei passaggi più critici della storia del paese, i due lavorarono fianco a fianco al Tesoro: Draghi nel ruolo di direttore generale e Giavazzi in quello di responsabile per la ricerca economica, la gestione del debito pubblico e le privatizzazioni.

 

Non è stata quindi una sorpresa vedere nei giorni scorsi l’economista della Bocconi entrare a Palazzo Chigi per un colloquio con il Presidente del Consiglio, di cui sarà – non si sa se con un incarico formale o meno – un ascoltato consigliere economico. Se tra il governo Conte e il governo Draghi ci sono diversi elementi di continuità, un segnale di svolta sulle idee di fondo di politica economica è rappresentato proprio dalla scelta dei consiglieri economici. Giuseppe Conte aveva scelto come consiglieri Gunter Pauli e Mariana Mazzucato. Tralasciando un personaggio bizzarro come Pauli, che legava la diffusione del Covid a tecnologie come il 5G, sul ruolo dello stato in economia Giavazzi la pensa all’esatto opposto della Mazzucato. L’economista dell’University College London, nonché membro nel cda dell’Enel su indicazione del governo Conte, è da anni l’alfiere dello “Stato imprenditore”, ovvero di un ruolo sempre più presente e diretto dello stato non solo attraverso la tassazione e la regolamentazione ma come imprenditore capace di innovare e scegliere settori promettenti.

 

“Abbiamo idee molto diverse – disse Giavazzi alla Mazzucato in un dibattito televisivo di qualche anno fa – la politica industriale migliore è quella fatta dall’Antitrust, l’unica altra cosa che serve sono le detrazione fiscali alle imprese per ricerca e sviluppo”. L’idea di fondo è che, specialmente in Italia, “non può funzionare l’illusione che lo stato e la politica individuino imprese e settori di successo. La ripresa è possibile se si tagliano spesa e tasse”. Meno tasse, ma anche meno sussidi: durante il governo Monti Giavazzi è stato autore di un rapporto, in gran parte inattuato, per la razionalizzazione dei contributi pubblici alle imprese. Lo stato deve quindi avere un ruolo importante nella regolamentazione e in settori come sanità e istruzione, ma la crescita devono produrla dal basso le imprese in un ambiente dove ci sono concorrenza e dinamismo (sul tema è interessante “Dynamism”, l’ultimo libro del Nobel Edmund Phelps). Un’eco di questa impostazione si è sentita nel discorso al Senato, quando Draghi ha parlato della delimitazione del “ruolo dello stato e del perimetro dei suoi interventi” e di una legge per promuovere la “concorrenza”.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali