Goffredo Bettini (Ansa)

L'intervento

La svolta che serve al Pd nel rapporto con il M5s

Goffredo Bettini

Scommettere sull’alleanza con Conte, allargare il perimetro a sinistra, investire su una destra europeista. Come arginare la crisi italiana 

La situazione italiana resta preoccupante. La pandemia ci minaccia ancora. La ripresa economica va consolidata. I conflitti sociali aumentano. Ed è un bene. Ma è un male se non vengono interpretati dalla politica e dalle istituzioni. La povertà è ulteriormente aumentata, resta lì come il perverso làscito di un meccanismo di sviluppo squilibrato e ingiusto. Alcune grandi città come Napoli e Roma, in forme diverse, sono decadute e oppresse dalla fatica del vivere quotidiano.

 

Tuttavia, un orizzonte di speranza, seppur ancora incerto, si avverte e dà qualche conforto per il nostro futuro. Il pil è aumentato più del previsto (il 5 per cento annuo), leggermente al di sopra della media europea. Si sta lavorando con serietà circa l’utilizzo delle risorse europee del Pnrr. I consumi riprendono. Il prestigio dell’Italia in campo internazionale cresce. Alcune riforme fondamentali sono in campo. Ci sono le condizioni per concluderle positivamente. La giustizia, il fisco, la pubblica amministrazione. Il governo, grazie soprattutto alla forte iniziativa del ministro Orlando, sta tentando una risposta al disagio sociale, all’aumento della disoccupazione, alla necessità di nuovi ammortizzatori sociali indispensabili per gestire una transizione difficile.

 

Soprattutto la figura di Mario Draghi si è imposta oltre le più ottimistiche previsioni per autorevolezza e capacità di coordinare l’insieme dei ministri e i vertici della burocrazia. Egli rappresenta, al di là della funzione che vorrà o potrà avere, una garanzia inamovibile per la vita della Repubblica. È un quadro in cui c’è lo spazio per una forte iniziativa del Pd e del campo delle forze democratiche di progresso. Letta ha iniziato il suo lavoro con tenacia e qualche primo risultato. Speriamo nelle agorà. Vedremo.

 

Eppure il dibattito politico, invece di concentrarsi sull’avvenire, è rimasto per settimane appesantito da polemiche circa il passato. Non ne faccio certo una questione personale. Difendo una storia che ha coinvolto l’insieme del gruppo dirigente del mio partito, una squadra di governo ampia dei democratici e non solo il sottoscritto e l’ex segretario Nicola Zingaretti.

 

La caduta del governo Conte e le attuali difficoltà del Movimento 5 stelle sono indicate come la dimostrazione che l’alleanza che per quasi due anni ha governato l’Italia è stata un errore. E’ stata coniata da altri e poi affibbiata a me la locuzione “Conte o morte”. Parole mai pronunciate. Molto più semplicemente, con coerenza il Pd di Zingaretti, dopo un breve ma serio e articolato confronto, dopo l’iniziativa di Renzi per il varo di un governo con i Cinque stelle, accettò la sfida. Propose, rilanciando, un esecutivo di legislatura. Per evitare le elezioni, e  garantire una maggioranza a un presidente democratico, saggio, fedele alla Costituzione. Com’è, ora, Sergio Mattarella. E per consolidare una prospettiva politica competitiva nel confronto con la destra italiana. Sapevamo tutti la difficoltà di questo percorso. Che non è stato mai una difesa personale del premier. Che, comunque, stimo e che credo abbia fatto del bene all’Italia. No: è stata la logica stringente di un processo politico. Quando si governa insieme (questa è la lezione che ho imparato fin dai tempi del Pci) si contribuisce a risolvere i problemi, a sostenere chi ha la massima responsabilità, a rinsaldare i rapporti unitari con i compagni di strada. Questo abbiamo fatto: e tutto va collocato in quel periodo storico. Non rivisitato con gli occhi di oggi. Non giudicato con l’opportunismo del giorno dopo. In quella fase abbiamo ottenuto risultati? Sì. E tutti li rilevammo. Tranne coloro che erano pregiudizialmente contro un rapporto con il movimento di Grillo, senza avere alcuna proposta alternativa e neppure il coraggio di chiedere apertamente le elezioni.

 

Quali i risultati? Si è affrontata la pandemia con coraggio, prima di ogni altro paese occidentale. Abbiamo conquistato, con un diretto impegno del premier di allora, nel convincimento dell’opinione pubblica degli altri grandi paesi europei, una grande quantità di denaro. Gualtieri, inoltre, è riuscito a coniugare le esigenze di bilancio con una politica di sostegno alle imprese e alle famiglie che ha evitato una irreparabile riduzione della nostra base produttiva e sacche di disagio potenzialmente esplosive. Draghi, nel suo ultimo intervento all’Accademia dei Lincei, lo ha ricordato con molta efficacia. Abbiamo spaccato il populismo. Potrei continuare. Ci sono state certamente incertezze, lentezze, contraddizioni. Ma nel complesso la direzione è stata giusta. E in quel momento sarebbe stato insulso abbattere il Conte II senza avere in testa una soluzione diversa. Semmai si sarebbe dovuto compiere un passo in avanti per renderlo migliore e maggiormente stabile.

 

Zingaretti, il sottoscritto e tutto il gruppo dirigente del Pd, infatti, nella fase di passaggio tra l’emergenza e una prospettiva credibile per arrivare fino alla fine della legislatura nel 2023, parlammo di un rilancio, di un adeguamento dell’azione riformatrice, di un’intesa politica più consapevole, più responsabile e più generosa. Altro che subalternità! Ponemmo la questione di una svolta; ma in modo costruttivo. Renzi ricorda nel suo ultimo libro anche le preoccupazioni personali di Zingaretti, che egli mai nascose. Del tutto contrarie, tuttavia, alla scelta distruttiva che a un certo punto ha imposto Italia viva.

 

È inutile vantarsi del successivo arrivo di Draghi. In quella fase Draghi non era all’orizzonte. Non ha mai partecipato ad alcun complotto. Non era prevedibile e comunque non lo era nel quadro di un governo politico. Dopo l’abbattimento del Conte II, non solo a causa di Renzi ma per una convergenza di interessi di cui ho parlato più volte, nella confusione e incertezza che si andavano creando, il presidente Mattarella ha messo a disposizione la più importante personalità di cui disponeva la Repubblica. Ma nella forma di una soluzione di emergenza. Di un governo del presidente. Di un governo di tutti i partiti. Che solo l’autorevolezza di Mattarella e quella del nome da lui proposto hanno potuto realizzare. Ma che nessuno, sottolineo nessuno, prima di quella decisione avrebbe potuto proporre come una prospettiva politica e di governo. Perché, solennemente, ognuno in quella fase aveva dichiarato la sua incompatibilità a collaborare con i partiti dell’altro schieramento.

 

Questa è la storia. E dentro questa storia va giudicata la politica che ognuno ha portato avanti.

 

Ora è cambiato tutto. Si è aperta una vicenda di altro tipo, caratterizzata da un governo forte anche nell’opinione pubblica, ma da un sistema dei partiti disorientato e incerto sulle proprie scelte. Sia a destra che a sinistra. Direi, anzi, soprattutto a sinistra. Il Pd giustamente, con Letta, ha rilanciato la prospettiva del centrosinistra. Ma non appare chiaro in che modo essa possa avanzare nella realtà dei fatti. Si dice: rivolgiamoci innanzitutto alle forze che consideriamo più naturale aggregare attorno e insieme al Pd. Certo: c’è la società civile, i vari movimenti che si impegnano nei territori, le organizzazioni giovanili del volontariato, il variegato mondo cattolico che testimonia la sua presenza nel sostegno  alle parti più dolenti e fragili della popolazione, ma accanto a questo, il quadro dei partiti è desolante. A sinistra le orecchie più attente alla nostra proposta appartengono alle amiche e agli amici di Articolo 1. Lo ritengo un fatto importante e arricchente. Ma nello spazio che si autodefinisce autenticamente “riformista”, liberale e rivolto all’area più moderata, non siamo messi bene. Calenda polemizza quotidianamente e con incredibile asprezza contro il Pd e i candidati sindaci del centrosinistra di Roma e Napoli. Due grandi personalità, Gualtieri e Manfredi, che certamente avrebbero potuto rappresentare l’insieme delle forze democratiche. Renzi si muove nella stessa direzione. E quando può guarda anche allo schieramento del centrodestra.

 

Il Movimento 5 stelle sta letteralmente esplodendo. Ho notato che Stefano Folli, un commentatore acuto e intelligente, di fronte a questa dinamica così negativa e all’indebolimento di Conte, non dice più, come nel passato e ancora oggi si è ripetuto più volte, che Zingaretti e Bettini hanno sbagliato la strategia di alleanza con i Cinque stelle. No. Parla di un nuovo patto da stipulare. Evidentemente il problema, dunque, è stato ed è solo Conte. In una logica stranamente capovolta. Perché, al di là dall’attuale posizione sulla giustizia che pure per me pesa, Conte è stato sempre il rappresentante più ragionevole, equilibrato, testardamente unitario, anche nei confronti del Pd.

 

Non entro nel merito delle vicende per certi aspetti misteriose del Movimento 5 stelle. Non sarebbe rispettoso e non mi compete. Tuttavia, lo stesso Letta ha detto più volte: c’è un interesse generale che Conte riunifichi quel mondo, come gli è stato chiesto dallo stesso Grillo in persona quando stava all’inizio della sua avventura. La sua popolarità è ancora molto forte, il suo lavoro (che a mio giudizio si è protratto troppo a lungo) per costruire una carta dei principi, dei valori e uno statuto in grado di mettere in armonia le spinte migliori della storia del movimento pentastellato con l’esigenza di farne un partito schiettamente di governo, popolare e marcatamente ambientalista, sembra a me ancora oggi un’ambizione preziosa.

 

Non vedo come si possa gioire per le difficoltà che incontra questo tentativo. La frammentazione porterebbe a una confusione destabilizzante, anche in vista delle elezioni del capo dello stato. E lascerebbe il Pd, per quanto scritto in precedenza, senza il principale interlocutore della sua proposta di governo.

 

Insomma, se guardiamo al futuro vedo tre esigenze da combinare. Primo: aiutare Mario Draghi a mantenere e rafforzare la sua posizione di garante della Repubblica evitando, per coprire una debolezza di ciascuna forza politica, di strattonarlo e “partitizzarlo”. Draghi è Draghi. È consapevole di dover governare in una coalizione ampia e contraddittoria. Chiamarlo a coincidere con le sorti di uno o dell’altro partito è un danno a lui. E’ anche una rinuncia incomprensibile a utilizzare, da parte della classe dirigente politica questa fase di una sua oggettiva e minore sovranità, per attrezzarsi meglio circa il proprio profilo politico e culturale, il collegamento con la società e con le forze produttive, l’elaborazione di una credibile proposta di governo, che prima o poi dovrà essere messa in campo. Due: il riscatto italiano è all’inizio. Ha potenzialità ma anche precarietà. Dobbiamo creare le condizioni affinché esso si stabilizzi in modo duraturo. A partire dalla capacità di stroncare definitivamente la pandemia. Tre: non si può pensare di sospendere sine die la dialettica democratica italiana. Il populismo è divampato per mancanza di canali credibili tra i cittadini e il sistema democratico. Una piena cittadinanza, antidoto vero a ogni sbandata autoritaria e garanzia diffusa per i diritti sociali, personali e umani, si realizza se l’inevitabile conflitto endogeno nella società capitalistica è “messo” in forma politica. Se, insomma, prevede canali limpidi attraverso i quali si combatte, si trovano i compromessi e si risolvono i problemi.

 

Se dovessi riflettere su una positiva dinamica dei processi futuri, direi semplicemente: in Italia, dentro al Pd o fuori dal Pd, deve ricostruirsi una presenza forte e unitaria della sinistra democratica, innovativa, moderna e libertaria. Non si può sostenere oltre misura un’anomalia uguale e contraria a quella degli anni 70. Allora una sinistra comunista, un partito socialista veramente socialista e unitario fino a dissanguarsi, un mondo laico azionista e legato ai territori rappresentato da statisti come Ugo La Malfa, conquistarono il 50 per cento dell’elettorato, in un mondo diviso in due. Non annunciarono una “vocazione maggioritaria”. Erano maggioritari. Oggi la cultura, la forza critica e di elaborazione della sinistra è dispersa e non è percepibile. È un danno anche per il Pd. Inoltre, spero che il progetto di Conte possa andare avanti. Senza che lo stesso Conte si riduca, paradossalmente, a una “enclave” minoritaria. Infine, servirebbe un partito conservatore di massa simile ai popolari tedeschi. Sinceramente europeista, civilizzatore delle punte più aspre della demagogia, del populismo e del sovranismo che negli ultimi anni hanno dominato il campo a noi avverso. Avrà la Lega la forza di guardare lì o rimarrà inesorabilmente legata alle posizioni della destra estrema? Legittime. Ma dannose. E che alla fine ridurranno Salvini a essere il cavalier servente di Giorgia Meloni, tenace e per certi aspetti più coerente.

Ripeto: sono dilemmi da sciogliere. Almeno sul piano prettamente politico. Non ho ricette sicure. Mi piacerebbe si aprisse un confronto più vero. Per cercare le soluzioni migliori per gli anni che ci stanno dinnanzi.

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