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Itinerario elettorale

Vota il presepe napoletano. La corsa di Maresca, Manfredi e Bassolino

Francesco Palmieri

A Napoli c’è solo un enorme buco di bilancio lasciato da De Magistris. E tre programmini elettorali fondati su un’unica speranza miracolistica: il Pnrr di san Mario Draghi

Le altre puntate del Foglio sulle città al voto le trovate qui: Milano è il capolinea della destraA Bologna il centrosinistra senza avversari corre in “campo largo” per vincere subito

 

E’ calato al tramonto non un buio metaforico, ma letterale, sulla rassegna “Ricomincio dai Libri” organizzata nella Galleria Principe di Napoli per il fine settimana antecedente il voto locale. La manifestazione s’è conclusa la sera di domenica 26 senza elettricità, tra le fiammelle delle candele di cui editori e librai si sono riforniti maledicendo con sorriso rassegnato – anatema più scabro non c’è – l’amministrazione comunale che ha patrocinato l’evento. Quella che promise un giorno di “scassare la città”. Ma non nel senso in cui l’ha fatto Luigi de Magistris.

L’ormai ex sindaco arancione ha percorso nei due mandati consecutivi a Palazzo San Giacomo la parabola tipica descritta dal compianto Francesco Durante: “Un uomo solo al comando. Napoli è abituata così. Lo acclama, delira quasi per lui, ma è pronta poi a lasciarlo in braghe di tela non appena la sua stella si appanni e infine tramonti. In fondo è una comodità: c’è sempre qualcuno cui addossare colpe che sono (anche) collettive”. Lascia in eredità, de Magistris, e se la colpa sia (anche) collettiva o solo sua il risultato non cambia, un debito comunale di proporzioni così vaste da esserne tuttora dibattuto l’importo, che spaventa i contendenti alla successione come il leggendario coccodrillo mangiatore d’uomini terrorizzava i prigionieri rinchiusi nella fossa di Castel Nuovo. Mentre “Dema” ha fatto rotta sulla Calabria puntando alla poltrona di governatore, con un itinerario di conquista del Sud opposto a quello di Garibaldi o del cardinale Ruffo, è restata a Napoli a vedersela per lui la trentaquattrenne Alessandra Clemente, già suo assessore per otto anni, la più giovane tra gli aspiranti sindaco. Altri esponenti arancione di spicco hanno abbandonato la nave con esiti già disastrosi per qualcuno: il consigliere comunale uscente Ciro Langella e l’ex assessore con delega al Mare, Daniela Villani, avevano trovato posto fra le schiere di Catello Maresca, il candidato civico sostenuto dal centrodestra, in una lista che il Consiglio di stato ha escluso in via definitiva assieme ad altre tre dalla competizione. Qualcuno s’era dimenticato persino di allegare il contrassegno elettorale.

Unto dallo stesso carisma di cui beneficiò de Magistris, aver vestito la toga di pubblico ministero, Maresca a quarantanove anni ha ceduto alle lusinghe della politica dopo i notevoli successi conseguiti nella lotta al clan dei Casalesi. Poco confidente nei partiti, e molto in se stesso, ha provocato un prevedibile sconquasso cestinando i nomi che le segreterie gli suggerivano per le municipalità, ha sottovalutato l’imperizia nella compilazione delle liste presentate al termine di scazzottate notturne e reciproci dispetti, ha irritato i vertici di Lega e Fratelli d’Italia mentre solo con Forza Italia il rapporto è migliore. Giorgia Meloni, visitando Napoli la settimana scorsa, ha trovato tempo per una spremuta di melograno in via Chiaia e per il caffè al Gambrinus, ma non per incontrare Maresca. “Sono qui per spingere la lista di FdI, mentre Catello tiene molto al valore aggiunto rappresentato dal suo civismo. Mi pareva che le due cose potessero sembrare distoniche”, ha detto la Meloni, sicché nelle orecchie più malevole la parola “distonico” è riecheggiata come “disgiunto”. Perché proprio nel voto disgiunto, oltre che nella quota di astensionismo, si cela la maggiore incognita napoletana del 3 e 4 ottobre.

Se sorprese non ne arrivano, tanto meglio sarà per Gaetano Manfredi, il super candidato della coalizione di tredici liste sostenuto da una solidissima intesa locale tra Pd e Cinque Stelle che ha ricevuto anche la benedizione del governatore della Campania, Vincenzo De Luca. A cinquantasette anni, l’ex magnifico rettore della Federico II e ministro dell’Università nel Conte due sta affrontando come una passeggiata senza inciampi la campagna elettorale. Non è soltanto metafora, perché Manfredi non tiene comizi, non partecipa ai confronti né si cura di irritare con l’assenza sindacalisti e industriali. Lui, per l’appunto, dopo la pizza d’ordinanza con Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, ha cominciato a passeggiare. E a ricevere. Viene il ministro Franceschini, viene Bersani, arriva il segretario del Pd e Manfredi si toglie la soddisfazione di camminare con Enrico Letta per via Tribunali e San Gregorio Armeno nello stesso giorno in cui la Meloni ma non solo, anche il ministro leghista Giancarlo Giorgetti, scendono a Napoli schivando il fumantino Maresca. Placido per costituzione, algido nell’apparenza, l’ingegner Manfredi conduce Letta a visitare la chiesa delle Anime del Purgatorio e il segretario dem non manca di carezzare i teschi bronzei, gesto propiziatorio ripetuto nei secoli dai napoletani. Le anime in pena ricambiano sempre attenzioni e preghiere: se sono ancora vive votano, se trapassate intercedono altrove.

Conscio di questi riti, ma anche di quelli più laici della politica tradizionale, è Antonio Bassolino, quarto dei principali sfidanti ma unico tra loro a essere già stato sindaco poi presidente della Regione Campania, la prima carica dal ‘93 al 2000, la seconda dal 2000 al 2010. Un lunghissimo regno sporcato dall’emergenza rifiuti e brillante per altri risultati. Settantaquattro anni, che gli vengono imputati dagli avversari come troppi per rimettersi in gioco, mentre nessuno direbbe la stessa cosa a Mario Draghi che è suo coetaneo, Bassolino riparte in realtà da diciannove. Questo è il numero dei processi e di altrettante assoluzioni che hanno contrassegnato, lo dice e lo scrive nel preambolo al suo programma elettorale, “anni di sofferenze e di isolamento, soprattutto da parte del mio partito”. Bassolino non gliel’ha perdonata al Pd quando la sua candidatura, a febbraio scorso, ha ricevuto con tenue garbo una porta in faccia. Personaggio del Novecento, ricorre alla mitologia contro “quel che rimane del centrosinistra”: “Si è comportato come la divinità greca Crono che, per paura di perdere il suo potere, preferì divorare i propri figli”.

 

E’ lui, lo sanno tutti, l’uomo in più del voto disgiunto tra liste e candidati a sindaco, lui quello che persino molti elettori di destra potrebbero preferire a Maresca, paradosso ma non tanto nella città di Giambattista Vico, dove è possibile un ricorso storico per cui gli ex missini fanno la croce sopra il nome dell’ex comunista. Remota è la memoria, per chi c’era, del mondo nel ’93, quando Antonio Bassolino vinse la sfida contro Alessandra Mussolini nel tramonto mediterraneo della Prima Repubblica. Ricordi lontanissimi come i fasti del G7 del ‘94 a Napoli, che coincisero con l’avvio della guerra giudiziaria a Silvio Berlusconi e con la stagione del “Rinascimento partenopeo”. Bassolino la rievoca nel libro “Terra nostra”, autobiografia politica e personale (sovente coincidendo le due cose per un vecchio comunista), uscita in occasione della campagna elettorale. Comincia quando a sei anni il piccolo Totonno, nella casa di Afragola dove nacque, vide arrivare in cortile molte donne vestite a lutto che piangevano dinanzi alla fotografia di Stalin, nella sezione del Pci alloggiata al pianterreno del palazzo.

Giorni fa Bassolino ha presentato “Terra nostra” nella piccola libreria Mondadori al Rione Alto, sul marciapiede di fronte alla statua di Totò, assieme a De Giovanni. Non il venerando Biagio filosofo, come una volta il nome Bassolino avrebbe suggerito, bensì Maurizio il giallista, già reduce da un confronto con Manfredi, perché la Napoli del 2021 è lontana da quella del ‘93 anche nelle presenze intellettuali. Allora Domenico Rea, Michele Prisco, Luigi Compagnone, Antonio Ghirelli, Gerardo Marotta dettavano opinione, Il Mattino era un colosso cartaceo stampato nello storico palazzo del Chiatamone e quella Napoli la percorrevano solo turisti transeunti dalla stazione ferroviaria agli aliscafi per Ischia e Capri. La metropoli di adesso è collegio letterario del “commissario Ricciardi”, che lo prolunga dal Vomero a Pizzofalcone con la serie dei “bastardi”, lasciando ad limina la Scampia di Gomorra e il Rione Luzzatti di Elena Ferrante. Il centro storico pullula di b&b per ospitare la massiccia presenza turistica tra Caravaggio e sfogliatelle mentre rinasce persino il mestiere del pazzariello, malgrado tutti i candidati lamentino, nei rispettivi programmi, che la permanenza dei visitatori sia ancora “mordi e fuggi”. Se c’è stato un prima e un dopo de Magistris nella toponomastica, con il “lungomare liberato”, ci fu un prima e un dopo Bassolino con la chiusura al traffico di Piazza Plebiscito. Non c’è ancora un prima e un dopo per le realtà sospese del Porto, di Bagnoli e della Napoli Est, se non un altro mazzo di progetti nei pamphlet elettorali.

Dalla città “policentrica e postmoderna” di Manfredi a quella “cuore e amore” della Clemente fino alla proposta di Maresca di deportare la movida nel Centro direzionale, con una specie di quartiere dei balocchi che mitighi la pressione sul centro, Vomero e Chiaia: sono programmi simili alla letterina di propositi virtuosi declamata da Tommasino alias Nennillo nel “Natale in casa Cupiello”. La verità è che tutti si proiettano sui fondi del Pnrr come sul gran ballo Excelsior, e su un patto tra la nuova amministrazione municipale e il governo Draghi per la “messa a terra” del Piano e lo smaltimento del debito locale. Il successore di de Magistris, ammesso che riesca a riavviare una macchina comunale allo sbando, potrebbe fregiarsi di un’occasione irripetibile per un nuovo Rinascimento napoletano. E’ forse quest’interessante prospettiva che ha ridestato da annoso apparente letargo alcuni “nonni” protagonisti nella Prima Repubblica (dopo la chiusura definitiva di conti veri o presunti dell’epoca di Tangentopoli). Il già “re delle preferenze” democristiano, Alfredo Vito, sostiene Maresca; Paolo Cirino Pomicino appoggia Manfredi, il quale può contare sulla lista Azzurri fuoriuscita da Forza Italia; un altro ex monarca, ma delle deleghe assessorili, l’avvocato socialista Silvano Masciari, supporta le ambizioni di Bassolino per interposto figlio Domenico (pacchetto vantato: duemila voti). Una pletora di candidati discutibili, discussi o anonimi riempie le liste fameliche di preferenze mentre alcune iconiche figure restano indietro, come Claudio Salvia, figlio di Giuseppe vice direttore del carcere di Poggioreale, ucciso dalla camorra di Raffaele Cutolo nel 1981.

Di camorra, a proposito, poco si parla preferendo tutti puntare sul tema più generico della “sicurezza”, come se si trattasse di una competizione elettorale a Belluno o Rovigo o come se l’emergenza della pandemia avesse deragliato i riflettori. Dove? Sul piano della simbologia e dell’apparenza: l’ultima polemica che ha appassionato (e diviso) la città ha riguardato murales e altarini di delinquenti uccisi, come se la riverniciatura degli effetti ne abolisse le cause. La Digos intanto indaga sui procacciatori di voti e su nuovi possibili brogli, che già ombreggiarono le amministrative del 2016: le “macchiette elettorali” sbozzate dal poeta e giornalista Ferdinando Russo si sono reincarnate più e più volte nel giro di oltre un secolo (“Tu quant’‘e avuto? Vinticinco lire…/ ma ogge songo iuto addo chill’ato,/ e n’aggio avuto trenta… Nun me crire?/ Io me ne so’ scennuto zitto zitto,/ m’aggio cuntate ‘e solde a uno a uno,/ ma… nun aggio vutato pe nisciuno”).

Le trame fitte e i colpi di teatro hanno sempre contrassegnato la sorte di Napoli e fecero la fortuna del grande Eduardo Scarpetta, protagonista del film “Qui rido io” presentato da Mario Martone al Festival del Cinema di Venezia. La blindatura di Manfredi, il carisma giudiziario di Maresca, il ritorno di Bassolino, il voto lasciato libero al ballottaggio dalla reduce arancione Clemente, le mosse dei pentastellati dissidenti col brianzolo napoletano Matteo Brambilla, quelle delle liste escluse, l’influenza dei “nonni” della Prima Repubblica, le celate intenzioni degli elettori di destra potrebbero offrire inattesi risvolti a quella che se fosse una pochade, e non l’appuntamento cruciale per una città sempre in bilico, sarebbe assai divertente.

“Qui voto io”, titolerebbe Scarpetta.