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Mps, prova per tre leader

Claudio Cerasa

La banca senese per Draghi è un cerchio da chiudere. Per Letta, la chance di rompere col populismo bancario dei 5s. E per Salvini quella di smetterla con il sovranismo da “piccolo è bello”

Nell’appassionante romanzo economico che riguarda il futuro di una delle banche più sofferenti d’Italia c’è un elemento interessante che merita di essere messo a fuoco e che riguarda una particolare storia nella storia, che ha un gusto tutto politico. La storia in questione è relativa alla trasformazione del caso Mps in un test utile a inquadrare con chiarezza la maturità delle tre leadership forse più importanti di questa stagione politica. E per alcune semplici ragioni l’operazione Unicredit-Mps si presenta oggi come un termometro perfetto per misurare la capacità da parte di Mario Draghi, di Enrico Letta e di Matteo Salvini di sfidare l’agenda della demagogia e di governare con coraggio il principio di realtà. Siena è una sfida importante per la politica, perché il segretario del Pd ha scelto di candidarsi in quel collegio, lasciato sguarnito dall’ex ministro dell’Economia ed ex deputato del Pd Pier Carlo Padoan, nel frattempo divenuto presidente di Unicredit, e perché gli avversari di Letta hanno capito quanto il collegio di Siena possa riservare sorprese interessanti per tutti coloro che sognano di indebolire la leadership del Pd. Ma Siena è una sfida molto importante anche per Draghi per due ragioni distinte, ma comunque convergenti.

 

Nel curriculum impeccabile del presidente del Consiglio, la storia di Mps rappresenta una ferita ancora aperta e tutti ricorderanno che i problemi della banca senese sono esplosi all’epoca del matrimonio dissennato tra Mps e Antonveneta, non ostacolato e anzi incentivato dall’allora governatore di Bankitalia Mario Draghi (Antonveneta valeva circa 3 miliardi di euro, Mps la pagò circa 10 miliardi). Anni dopo il cerchio si chiude e anche grazie alla mossa del governo Draghi il quasi certo fallimento di Mps potrebbe essere evitato grazie alla triangolazione tra il Mef (azionista di Mps) e Unicredit. Mps è importante dunque per Draghi per ragioni simboliche (il cerchio che si chiude) ma è importante anche per ragioni politiche perché permette al presidente del Consiglio di dimostrare in purezza quello che è il suo approccio sul tema dell’interventismo di stato: stato quando si deve, mercato quando si può. Vale per Mps, forse varrà anche per Alitalia, certamente varrà per Cdp, il cui approccio nei confronti dei suoi gioielli controllati o partecipati (da Webuild a Tim) è passato dall’essere un “comprare a tempo indeterminato per riequilibrare le storture del mercato ” a “comprare a tempo determinato, per riequilibrare alcune storture preoccupandosi poi di ridare interamente al mercato il controllo delle aziende partecipate”. Stato quando si deve, mercato quando si può.

 

La particolarità dell’agenda Draghi non è solo quella di essere in discontinuità con il recente passato politico ma è anche quella di essere un’agenda che almeno su questo punto non trova sponde all’interno della maggioranza. E così, per tornare a Salvini e Letta, succede che nessuno dei leader più importanti della maggioranza abbia il coraggio di spiegare che Mps ha una chance di sopravvivenza solo all’interno di una grande banca europea, dove oltretutto il soccorso pubblico si nota anche di meno, mentre non ha alcuna speranza di sopravvivenza nella condizione attuale di Alitalia del credito. E succede così che nessuno tra Letta e Salvini abbia il coraggio di dire su Mps la verità. Nessuno ha il coraggio di dire che non c’è una logica economica nel rinviare decisioni inevitabili, ma c’è solo una logica strettamente elettorale. Nessuno ha il coraggio di dire che ogni rinvio costa soldi, perché mantiene una situazione inefficiente e insostenibile. Nessuno ha il coraggio di dire che le alternative proposte (niente aiuti ulteriori dallo stato o no spezzatino) sono auspici non sostenuti da alcun calcolo economico che ne dimostri la fattibilità. Nessuno ha il coraggio di dire che dagli stress test pubblicati venerdì scorso emerge che Mps non reggerebbe una crisi improvvisa. Nessuno ha il coraggio di dire che Mps, senza Unicredit, avrebbe bisogno di un ulteriore aumento di capitale possibile però solo nel caso in cui il management fosse in grado di dimostrare al mercato che i profitti aumenterebbero nel tempo, cosa che nelle condizioni in cui si trova Mps può accadere solo tagliando i costi e riducendo ancora il personale (in sintesi il piano per restare da soli richiederebbe ulteriore capitale dallo stato e tagli di personale: un buon affare).

 

Da questo punto di vista, dunque, il no allo spezzatino farfugliato in modo confuso da Salvini e Letta in queste ore è un no che indica due immaturità diverse. Per Salvini, il no allo spezzatino è il riflesso dell’incapacità da parte del leader della Lega di emanciparsi dalla stagione nazionalista del piccolo è bello, con tutte le relative diffidenza di fondo per il mercato cattivo, la globalizzazione malvagia, le banche non di stato spietate. Per Letta, il no allo spezzatino è il riflesso dell’incapacità da parte del leader del Pd di emanciparsi dallo statalismo grillino (oggi il M5s propone come alternativa all’operazione Unicredit una stagione ulteriore di controllo dello stato, in perfetto modello Alitalia) e di rivendicare una nuova stagione nei rapporti tra lo stato e il mercato che pure non dovrebbe essere estranea alla cultura europeista del segretario del Pd (il Pd, detto tra parentesi, è arrivato a rinnegare la candidatura di Pier Carlo Padoan nel 2018, nelle file del Pd, affermando che “quella candidatura era figlia di un’altra storia del Pd”, dimenticando che nel 2017, ai tempi del governo Gentiloni, fu Padoan il ministro che gestì l’operazione di ricapitalizzazione precauzionale, evitando il fallimento di Mps, proteggendo lavoratori e risparmiatori e creando le condizioni per rimettere sul mercato Mps, come potrebbe succedere oggi). La partita tra Mps e Unicredit in fondo è anche tutto questo: è un cerchio che si chiude per Draghi, un nuovo modello nel rapporto tra stato e mercato, un’alternativa al metodo Alitalia e una prova di maturità per Letta e Salvini per dimostrare quanto i due partiti più importanti della maggioranza avranno la forza e il coraggio di sapere scegliere da che parte stare in economia tra l’agenda Draghi e l’agenda populista. Preparate i popcorn.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.