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Il conflitto di idee non è un reato. Riflessioni sul ddl Zan

Domenico Pulitanò

L’impegno contro sessismo, omofobia e transfobia è cruciale, ma la pretesa di imporre una propria visione del bene e del male è la deriva illiberale di una cultura che si ritiene progressista

Qui di seguito un intervento sul ddl Zan scritto da Domenico Pulitanò, avvocato ed Emerito di Diritto penale all’Università di Milano Bicocca, pubblicato sulla rivista giuridica Giurisprudenza penale.

 

Mi è stato chiesto un commento sul tanto discusso disegno di legge n. 2005 (ddl Zan) approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati il 4 novembre 2020, intitolato “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza o per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. Le riflessioni che qui propongo riguardano la proposta in itinere e le discussioni in materia, sullo sfondo di problemi più generali di politica del diritto penale.

 

Le nuove norme penali verrebbero inserite negli art. 604-bis e 604-ter del codice penale, dove sono confluite, in attuazione della c.d. riserva di codice, le fattispecie di reato introdotte nell’ordinamento italiano dalla legge n. 654 del 1975 (ratifica della Convenzione di New York del 7 marzo 1966) poi modificata nel 1993 dalla c.d. legge Mancino. Per la loro collocazione è stata creata una nuova sezione di delitti contro l’uguaglianza, inserita nel capo dei delitti contro la libertà individuale. Non sono toccate (ampliate) dalla riforma in itinere le fattispecie più gravi (istigazione alla violenza), né la fattispecie di propaganda, limitata alla sola propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale. Vengono ampliate le fattispecie di istigazione a commettere e di commettere atti di discriminazione. I divieti vigenti si riferiscono a discriminazioni fondate su motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; la riforma aggiunge motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità (il riferimento è a definizioni contenute nell’art. 1).

 

Le nuove incriminazioni potrebbero ragionevolmente funzionare nei modi e con i problemi che abbiamo visto nella giurisprudenza relativa agli artt. 604-bis e 604-ter. La casistica è quantitativamente esigua; comprende sentenze sia di condanna sia d’assoluzione; riguarda prevalentemente la fattispecie di propaganda, che non è ripresa nella proposta di legge in itinere, in coerenza con il modello di disciplina vigente, che staglia una tutela più ampia di fronte alla sola propaganda razzista: un’eccezione che ben si spiega alla luce delle pagine più buie della storia recente.

 

Pressoché inesistente una casistica giurisprudenziale sulla fattispecie di condotta discriminatoria. Ciò rispecchia paradossalmente l’ubiquità esistenziale del discernere e discriminare. Discriminare, nel senso più lato, significa distinguere, discernere, scegliere; è un aspetto normale della vita normale, esercizio di libertà nelle scelte di valore, di comportamento, anche di rapporti personali. Abbiamo rapporti preferenziali con i nostri amici; verso gli altri abbiamo doveri di uguale rispetto (neminem laedere) ma non di uguale rapporto. Se e quali esempi concreti di atti di discriminazione siano stati pensati dai sostenitori della riforma, non ho trovato informazioni in ciò che ho letto o sentito dire.

 

Una fattispecie di reato costruita sul solo concetto di discriminazione è troppo generica, non specifica alcuna tipologia oggettiva di atti; ha bisogno d’essere precisata e delimitata da criteri normativi più specifici. La studiosa che più si è impegnata a sostegno della riforma ha segnalato l’opportunità che il legislatore si impegni nella definizione di atto di discriminazione, con clausola di salvaguardia della libertà di espressione, e ha proposto come esempi legislazioni di paesi a noi vicini.

 

La legge in itinere intende essere una difesa di categorie di persone che sono storicamente oggetto di discriminazioni, di odio, di persecuzioni. L’esigenza di contrastare comportamenti aggressivi o discriminatori è un fondamento legittimo e ragionevole per una tutela anche penale. Da parte dei sostenitori della riforma è stato dato un forte rilievo a condotte aggressive, motivate da odio o disprezzo nei confronti delle donne o del mondo LGBT.

 

Le voci critiche prospettano pericoli per la libertà di manifestazione del pensiero. Accade spesso che, per contrastare una proposta di legge, venga fatto uso di logiche del sospetto ed argomenti sopra le righe. La difesa della proposta Zan può essere fondata su una chiara presa di posizione critica contro forzature ermeneutiche.

 

Il divieto penale di commettere atti di discriminazione (fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità) deve intendersi riferito a comportamenti materiali; non a manifestazioni espressive. Non rientra nella fattispecie “atti di discriminazione” l’espressione di giudizi. Giudicare significa separare, distinguere, riconoscere eventuali diversità (questo aspetto è messo in evidenza da Giuliano Ferrara in un editoriale sul Foglio del 28 giugno 2021); cerchiamo di discriminare il vero e il falso, il bello e il brutto, il giusto e l’ingiusto.

 

Le norme penali (anche l’art. 604-bis) distinguono chiaramente fra atti materiali vietati e l’istigazione a compierli. Nuova fattispecie di reato d’espressione, nel ddl Zan, è l’istigazione a commettere atti di discriminazione (fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità).

 

Il divieto di istigazione si riferisce alle condotte discriminatorie rientranti nell’altro nuovo divieto: atti concreti di discriminazione contro persone. Questa interpretazione, l’unica coerente con la lettera e la ratio delle norme in discussione, assicura il rispetto del principio costituzionale di libertà d’espressione. Il confronto d’idee sulle concezioni della sessualità e su problemi etici e normativi non è toccato dalla legge in itinere.

 

Ho sentito dire da un autorevole direttore di giornale, in una trasmissione televisiva, che diverrebbe reato sostenere posizioni critiche in tema di matrimonio fra persone dello stesso sesso. Letture del genere sono chiaramente fuoriuscenti dai confini delle fattispecie in discussione, prima che incompatibili con l’art. 21 Cost.

 

In un’ottica di garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, nel testo approvato dalla Camera è stato inserito il seguente art. 4: “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Nella giurisprudenza costituzionale in materia di reati d’espressione il pericolo concreto sta a fondamento di sentenze interpretative di rigetto (n. 65/1970 sull’apologia di reato, n. 74/1958 sulla c.d. legge Scelba). Il ben intenzionato testo citato, nella sua apparente ovvietà, non è felice: ribadisce il limite estremo della non illegittimità costituzionale; non aiuta (forse potrebbe confondere) l’interpretazione di fattispecie più ristrette e meglio tipizzate. Ragionevole la proposta di soppressione.

 

Un punto particolarmente controverso è il riferimento all’identità di genere, cui è dedicata un’apposita definizione. È corretto desumere che la legge in esame abbia fatto propria l’ideologia del gender? Le definizioni contenute nel testo di legge hanno la sola funzione di tipizzare le motivazioni soggettive degli autori dei comportamenti incriminati. È una lettura sopra le righe ravvisare in taluna di esse un’intrusione legislativa in problemi aperti alla discussione filosofica ed etica. La discussione sull’ideologia gender è e resterebbe ovviamente libera, coperta dai principi costituzionali.
Riassumendo e concludendo sulle nuove fattispecie di istigazione a compiere e di compimento di atti di discriminazione illecita contro persone: se correttamente interpretate (non deformate da ermeneutiche incolte e illiberali) non rappresentano un pericolo per le libertà costituzionali.

 

Se possano divenire uno strumento operativo utile, è ragionevole tenere aperto il problema (il dubbio) anche alla luce dell’esperienza applicativa della legge Mancino. Fatti di violenza fisica di matrice omofobica o transfobica rientrano in divieti che fanno parte del nucleo del diritto penale comune. Elemento di novità sarebbe l’estensione della circostanza aggravante ex art. 604-ter, cui nella discussione è stato dato grande rilievo, anche da intellettuali non giuristi.

 

Limitatamente alla previsione di un’aggravante vi è convergenza di schieramenti contrapposti. Aggravamenti di pene edittali e previsione di circostanze aggravanti sono un aspetto caratterizzante e costante delle politiche penali del recente periodo, nell’alternarsi di maggioranze politiche diverse. Proporre ed emanare una norma che aggrava la pena mette in scena intenzioni delle quali può essere fatta l’apologia con le correnti retoriche o ideologie penalistiche: migliore giustizia retributiva, maggiore efficacia generalpreventiva. “Protezione rafforzata”, è una formula spesso usata. Ma una circostanza aggravante non è un ampliamento della tutela; la valenza generalpreventiva è incerta. È possibile una maggiore severità in caso di condanna: un profilo di valenza simbolica assai più che operativa.

 

Circostanze aggravanti si iscrivono, per definizione, dentro il confine tracciato dalla fattispecie base. Non allargano l’area dell’illecito; non facilitano l’attività della macchina giudiziaria penale, caso mai la appesantiscono, chiedendo un di più di accertamenti fattuali e di valutazioni legali. Gli effetti concreti sulla commisurazione delle pene possono essere i più diversi. L’art. 604-ter, nel quale si inserirebbe la nuova aggravante, prevede l’aumento fino alla metà, e un peculiare meccanismo di calcolo qualora siano da applicare circostanze attenuanti: le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento per l’aggravante. Non essendo prevista una misura minima dell’aumento, l’obbligatorietà dell’applicazione dell’aggravante funziona in concreto come criterio nominato di commisurazione della pena. L’aspetto simbolico è vistoso; aleatori gli effetti sulla misura della pena, affidati a un’amplissima discrezionalità del giudice.

 

Rispetto alle violenze fisiche – quale che ne sia la matrice – il diritto penale vigente è (sulla carta) ben attrezzato. I problemi riguardano il law enforcement, non lacune di tutela legale. Ad uno sguardo d’insieme, la legge in itinere si presenta come una normativa di spiccata valenza simbolica, ben difendibile sul piano dei principi e delle intenzioni, espressione di valori di civiltà e di rispetto reciproco. Potrebbe risultare non scevra di pericoli qualora fosse maneggiata da mani disaccorte, o non sensibili alla preminenza della libertà d’espressione. È appagante per molti come risposta a richieste di riconoscimento.

 

La giurisprudenza della Corte EDU ha respinto ricorsi contro sentenze di condanna per manifestazioni omofobe che non costituiscono reato in Italia, nemmeno ai sensi della proposta in discussione. Le motivazioni dei giudici di Strasburgo (nelle sentenze e in opinioni concorrenti o dissenzienti) evidenziano la complessità dei problemi relativi a reati d’espressione, e sottolineano il margine di apprezzamento degli Stati. Non ha alcun appiglio la tesi, affiorata nella discussione in Italia, che nella giurisprudenza strasburghese in materia di manifestazioni omofobe sia leggibile un’affermazione, almeno implicita, di obblighi specifici di tutela penale.

 

Quale potrebbe essere la prevedibile portata operativa della legge Zan, nel testo che le discussioni hanno portato alla ribalta politica? Con scetticismo metodologico, mi astengo da previsioni congetturali. Rispetto ai problemi reali della politica penale nell’Italia di oggi, la normativa in discussione è marginale. È comunque una iniziativa legislativa ragionevole per la sua valenza comunicativa, che in una democrazia liberale concorre (legittimamente) al successo o insuccesso politico. Sostenitori e avversari faranno un bilancio di costi e benefici sul piano della “politique politicienne”. In un esame critico di qualche anno fa sulla comunicazione politica negli USA, volto a presentare al mondo progressista i difetti sul suo modo di comunicare, un serio studioso ha osservato che i conservatori si sono impossessati delle parole libertà e autonomia. Ciò accade in casi in cui i progressisti danno la preferenza a interessi diversi dalla libertà, con buone intenzioni e non senza buone ragioni, ma con insufficiente considerazione di ragioni altre.

 

Sotto questo profilo, è opportuna una riflessione sul contesto culturale e di politiche del diritto in cui la vicenda in esame si inserisce. In questi anni, nel mondo occidentale ha preso corpo un politically correct che in nome della difesa da discriminazioni tende a capovolgersi in pretese di discriminazione. Ne è espressione anche l’intolleranza manifestata da personaggi famosi del mondo mediatico contro un politico (Matteo Renzi) che ha proposto modifiche della riforma Zan. Un attento giornalista vi ha visto un tentativo di “alimentare un sentimento di tolleranza zero verso coloro che si permettono di esprimere dubbi su alcune battaglie trasformate in bandierine” (“Lo Zan spiegato ai Ferragnez”, editoriale di Claudio Cerasa sul foglio del 7 luglio 2021).

 

Un’intolleranza concreta si è manifestata nel caso Gattuso, l’allenatore che i tifosi del Tottenham – attraverso i social media – hanno preteso non venisse assunto in ragione di passate dichiarazioni omofobe (“le nozze gay mi scandalizzano”) e sessiste: un ostracismo verso una persona in ragione di ciò che ha detto o scritto, con riferimento ad attività che non hanno alcuna relazione con ciò che era stato detto o scritto. Parole non costituenti reato, nemmeno alla stregua della legge Zan.

 

Come valutare l’ostracismo (la discriminazione) verso il bravo allenatore, reo di avere detto parole omofobe? Non averlo assunto è una scelta legittima, in assenza di violazione di obblighi. Sul piano etico-sociale possono legittimamente confrontarsi valutazioni diverse. Risposta alla Deng Hsiao Ping, l’uomo che ha avviato la modernizzazione autoritaria della Cina: il gatto che prende i topi è un buon gatto, rosso o nero che sia. È una risposta coerente anche con l’etica di una società aperta: non discriminare in ragione di opinioni personali e di parole infelici.

 

Le pretese di imporre una propria visione politically correct del bene e del male, escludendo altre, sono derive illiberali di una cultura che si ritiene progressista. In Italia, in passato, vi sono state derive più gravi, fino all’impedire materialmente di parlare a sostenitori di posizioni sgradite, in ambienti che dovrebbero essere aperti a tutti. Le violenze del sedicente “antifascismo militante” sono state per l’antifascismo un pericolo più grave delle “manifestazioni” incriminate dalla legge Scelba.

 

Contrastare le tendenze illiberali del politicallly correct è oggi un’esigenza prioritaria, in difesa delle libertà di tutti. Sul piano giuridico, confido in un consenso generale: la garanzia di libertà non presuppone una identificazione con l’uso che ne è fatto da altri. I principi di un ordinamento laico e liberale ci dicono che la libertà di manifestazione del pensiero richiede tutela “anche se (o meglio proprio quando) possa provocare reazioni nella società. E’, nel suo nucleo essenziale, garanzia del pensiero critico, eterodosso, collidente con pensieri e sentimenti dominanti, e proprio perciò bisognoso di protezione.

 

L’odio come sentimento non può segnare un confine obiettivo della libertà d’espressione; il confine è superato là dove l’odio si traduca in messaggio capace di suscitare il concreto pericolo di azioni violente. Una pressoché dimenticata sentenza (n. 108/1974) ha parzialmente salvato la fattispecie di istigazione all’odio fra le classi sociali (art. 415 cpv. c.p.) pur ritenuta, nella sua indeterminatezza, in contrasto con l’art. 21 Cost.; è stata dichiarata illegittima nella parte in cui non specifica che l’istigazione deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità. Un ritorno al codice Zanardelli, che ha lasciato sulla carta una norma mai più venuta in discussione.

 

La riflessione dottrinale sullo hate speech mostra la difficoltà e il disagio della ricerca di un confine ben definito fra la libertà d’espressione e discorsi privi del supporto di un qualsiasi valore di civiltà. Sul piano etico-sociale, è importante l’impegno di contrasto a sessismo omofobia transfobia contro qualsiasi manifestazione aggressiva, anche non oggetto di divieti legali. Dall’altro lato, vanno rispettate (tollerate) le libertà anche di chi ne faccia usi che consideriamo detestabili ma non illeciti, se diamo la priorità alla difesa di una società aperta, liberale, ragionevolmente conflittuale.

 

Nel campo delle politiche penali, la legge Zan si colloca in una linea di continuità con le politiche (di vario colore) che fanno affidamento nel più penale come promessa di tutela e fonte di consenso politico. È il tipo di diritto penale che da tempo in Italia (e non solo) è prevalente. Con un’etichetta forse logorata da un uso eccessivo, viene definito populismo penale. Ne sono espressione normative securitarie; un esempio assai significativo è l’aggravante prevista per i reati commessi dall’immigrato irregolare, dichiarata illegittima da un’importante sentenza della Corte costituzionale (n. 249/2010). Ne sono espressione la maggior parte delle leggi penali delle più recenti legislature. Hanno coloritura identitaria (tra il moralistico e il sovranista) recenti proposte di legge in materia di surrogazione di maternità che propongono la punizione, secondo la legge italiana, di fatti realizzati da italiani all’estero.

 

Divieti penali anche apprezzabili come messaggio normativo, per la loro valenza simbolica, sul piano operativo possono risultare ben poco utili, se non controproducenti, spostando sul penale problemi che dovrebbero essere seriamente affrontati in altre sedi. Un serio impegno culturale e politico su temi come condotte discriminatorie e discorsi d’odio potrebbe probabilmente dispiegarsi meglio in un orizzonte meno segnato dal penale, ed anche meno segnato da un politically correct censorio.

 

Le preoccupazioni per la libertà d’espressione, astrattamente infondate, vanno considerate non irrealistiche in un mondo segnato da pretese politically correct. Sul piano culturale, la difesa di norme antidiscriminazione dovrebbe essere collegata ad un impegno contro pretese censorie ed ostracismi, nei confronti di chiunque, anche di un bravo allenatore omofobo. Una buona politica del diritto penale – sul piano della politica alta, e anche della politique politicienne – non può non prendere sul serio le parole d’ordine della libertà, del confronto d’idee, anche del conflitto.

 

La considerazione delle libertà e del pluralismo culturale ha rilievo anche per la parte non penalistica della legge Zan, l’istituzione (art. 7) di una giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia. La finalità di promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione presuppone apporti provenienti da una pluralità di concezioni e di modi di partecipazione. In tempi di pressioni verso un conformismo politically correct (per es. l’inchino dei partecipanti a competizioni sportive, per una causa che si presuppone non discutibile) la discussa nota verbale della Chiesa cattolica ha dato voce a libertà laiche.

 

Riassumendo e concludendo. Le norme penali della ben intenzionata legge Zan, correttamente interpretate, possono essere ragionevolmente difese per la loro valenza simbolica, sull’affidamento che non ne siano fatte forzature applicative. Rispetto ai problemi attuali del penale, sarebbe un piccolo aggiustamento settoriale. La linea di fondo delle politiche legislative penali dovrebbe andare in una direzione ben diversa: non una messa in scena di ideologie e concezioni identitarie, non l’attribuzione al penale (al più penale) di una salvifica centralità, ma al contrario una politica di superamento della centralità del penale.

 

Certo, c’è bisogno di una forte affermazione del principio di responsabilità per l’osservanza di precetti importanti, e ci può essere una valida ragione anche per precetti non centrali. La tendenza complessiva, in una democrazia liberale, dovrebbe andare verso la restrizione dell’area del penalmente rilevante. In Italia ciò è oggi richiesto anche da ragioni di razionalità economica nell’uso di risorse scarse. Sul versante dei precetti e dei criteri di attribuzione di responsabilità, l’esperienza della pandemia ha portato in evidenza problemi di limiti, di scudo di fronte ai pericoli d’uso improprio della spada penalistica.

 

Sul versante delle sanzioni un buon punto di partenza sono le proposte (ovviamente aperte alla discussione) della Commissione Lattanzi. Per una politica alta – non ideologica – del diritto penale, dovrebbero essere questi i temi centrali.

Domenico Pulitanò

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