Lo Zan spiegato ai Ferragnez

Claudio Cerasa

Una legge che lascia ai magistrati l’interpretazione delle parole non può essere una legge intoccabile. Cosa ci dice sulla difesa della libertà di espressione lo scazzo tra i Ferragnez e Renzi sul ddl Zan

Nel pomeriggio di ieri, qualche ora prima che la nostra attenzione fosse interamente catturata dalla sfida tra Italia e Spagna, il dibattito politico è stato monopolizzato da un duello senza esclusione di colpi andato in scena, rullo di tamburi, tra Chiara Ferragni e Matteo Renzi. L’oggetto dello scontro coincide con un tema che si trova in cima all’agenda dei lavori parlamentari. E la ragione dello scazzo tra Ferragni e Renzi, neanche a dirlo, ha a che fare con le posizioni divergenti dei due sul ddl Zan. Ferragni, senza mezzi termini, supportata dal marito Fedez, ha accusato Matteo Renzi di essere il mandante, insieme con Matteo Salvini, di un’azione politica oscena, finalizzata a privare l’Italia di una legge fondamentale, che aiuterebbe il nostro paese a combattere una volta per tutte la transofobia. Ferragni ha scelto di corredare la sua critica su Instagram con una didascalia sotto il nome di Renzi, “che schifo che fate politici”, e qualche minuto dopo, a seguito di una risposta offerta dall’ex premier, il marito di Ferragni ha rilanciato il post di Renzi suggerendo che la posizione del leader di Italia viva fosse tipica di chi fa la pipì sulla testa degli italiani spacciando la pipì per pioggia.

 

Le posizioni di Fedez e Ferragni  sono interessanti da mettere a fuoco perché aiutano a inquadrare un problema non di poco conto di cui il ddl Zan (che sarà in aula il 13 luglio) è diventato un veicolo e che potremmo provare brutalmente a sintetizzare così: alimentare un sentimento di tolleranza zero verso coloro che si permettono di esprimere dubbi su alcune battaglie trasformate in bandierine dall’opinione pubblica. Nel caso specifico, Renzi, come tutti coloro che hanno delle perplessità sul ddl Zan, diventa nel dibattito pubblico un avversario dei diritti, un pericolo per la società, un ostacolo contro la libertà, ma il tentativo di additare Renzi come un odioso nemico del popolo per via del suo tentativo di trovare un compromesso in Parlamento capace di allargare la base numerica a supporto di una legge contro l’omotransofobia mostra due paradossi mica da poco per tutti coloro che genuinamente hanno trasformato la difesa del ddl Zan in un simbolo della difesa della libertà.

 

Il primo paradosso è presto detto e i post di Ferragni e Fedez in questo senso sono esemplari: difendere una legge che dovrebbe limitare alcune forme d’odio alimentando l’odio verso tutti coloro che quella legge non la considerano buona. Il secondo paradosso è meno intuitivo ma è altrettanto evidente: difendere una legge che dovrebbe garantire alcune libertà senza curarsi troppo di altre libertà che quella legge rischia di andare a comprimere. Natalino Irti, insigne giurista, ieri in una bella intervista ad Avvenire ha provato a spiegare con spirito laico uno dei punti deboli del ddl Zan e ha offerto alcuni spunti di riflessione utili per approfondire un tema importante: perché una legge che lascia ai magistrati l’interpretazione delle parole è una legge che può avere le intenzioni migliori del mondo ma resta comunque una legge sbagliata e dunque pericolosa. Il ragionamento di Irti parte dal famoso articolo 4 della legge Zan, che certamente Fedez e Ferragni avranno studiato. “Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Dunque, dice Irti, “come non non avvertire la gravità, direi l’abisso interpretativo, di quel legittime e di quel idonee? Chi decide, se non l’occasionale giudice, circa l’idoneità a determinare il concreto pericolo del compimento di un atto discriminatorio o violento Alla legge, non al giudice, spetta la descrizione della condotta illecita”. Conclusione di Irti: “Un grande studioso tedesco dedicò alcune sue pagine alla architettura della fattispecie criminosa, indicando il rigore della tecnica legislativa, che tanto più deve farsi precisa e netta quanto più si avvicina ai fragili e delicati temi della libertà”.

 

A Fedez e Ferragni può forse sfuggire che se una legge ordinaria è costretta ad affermare che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni” – ribadendo  ciò che è scritto nella Costituzione – è perché gli estensori della legge sono al corrente del fatto che quella legge rischia di violare alcuni articoli della Costituzione (niente male mettere in pericolo la stessa libertà di espressione nello stesso istante in cui prova a difenderla).

 
Può sfuggire questo ma non potrà sfuggire invece che lasciare al giudice di turno il compito di stabilire, caso per caso, il confine tra una condotta legittima e una esternazione che possa essere interpretata come atto discriminatorio non è esattamente il modo migliore per difendere la libertà (una democrazia sana, ha scritto il Guardian qualche giorno fa commentando il dibattito sul gender nel Regno Unito, non può prosperare se un cittadino si trova in una condizione tale da avere il timore di essere sanzionato, punito o censurato per ciò che si pensa).

 

E’ vero dunque, come dicono i difensori del ddl Zan, che all’Italia una legge serve, e che l’Italia, a differenza di altri paesi europei, è uno dei pochi paesi a non avere il sesso tra i motivi di non discriminazione previsti nella Carta (espungere la teoria del gender dal ddl Zan non è un atto di discriminazione ma, come ricordato in alcune sagge interviste dall’ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, è un modo per  far funzionare meglio la legge essendo “il genere inteso come costruzione sociale e culturale del sesso e l’identità di genere come condizione personale diversa da quella generale valori che devono essere difesi e garantiti, sì, ma che nella norma si traducono in concetti vaghi, che possono aprire ad eccessi interpretativi in sede giurisprudenziale”).

 

Tuttavia è altrettanto vero che la politica “da schifo” non dovrebbe essere quella che cerca soluzioni, o compromessi, ma quella che per fissare alcune bandierine trasforma la radicalizzazione dello scontro in un fine stesso della battaglia politica. Finché le bandierine ideologiche le sventolano gli influencer, nulla da dire. Quando le bandierine ideologiche vengono però sventolate da leader di partito che si comportano come se fossero influencer e che regalano ai propri avversari la bandiera della libertà forse sì, lì qualche problema c’è. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.