Cent'anni di partito unico

Giulia Pompili

Oggi Pechino celebra un secolo di Partito comunista. Da Mao Zedong a Xi Jinping ben poco è cambiato, anzi. Com’è che la Cina non ha avuto una sua perestrojka? Un girotondo di opinioni

Il 2021 è un anno cruciale per la legittimazione della politica cinese: è l’anno degli anniversari più importanti. Il primo ottobre prossimo si celebreranno i 72 anni dalla fondazione della Repubblica popolare cinese (1 ottobre 1949)*. Oggi, primo luglio, si festeggiano invece i cento anni dalla fondazione del Partito comunista cinese, il partito unico che governa la seconda economia del mondo ininterrottamente da un secolo. E’ una data simbolica: nel suo discorso “di fondazione” del 30 giugno 1949, Mao Zedong inizia dicendo che quel giorno “si celebra il fatto che il Partito comunista cinese abbia vissuto già ventotto anni. Come un uomo, un partito politico ha la sua infanzia, la sua giovinezza e la sua vecchiaia. Il Partito comunista cinese non è più un bambino ed è diventato adulto”. E poi proseguiva: “Quando un uomo raggiunge la vecchiaia muore; lo stesso vale per un partito. Quando le classi scompariranno, tutti gli strumenti della lotta di classe – i partiti e la macchina statale – perderanno la loro funzione, cesseranno di essere necessari, quindi progressivamente appassiranno e termineranno la loro missione storica; e la società umana passerà a uno stadio più elevato”. Per Mao è la borghesia a volere la continuazione della macchina statale: “Hanno paura di parlare dell’estinzione delle classi, del potere statale e dei partiti. Noi, al contrario, dichiariamo apertamente che ci stiamo adoperando per creare le condizioni che porteranno alla loro estinzione”. Cento anni dopo, il Partito comunista cinese è ancora lì, al potere a Pechino, e non ha alcuna voglia di estinguersi, anzi. 


Come abbia fatto un partito a superare tutte le crisi, a superare i cambiamenti radicali della società e del mondo senza mai perdere il potere è un mistero sul quale la scienza politica si interroga spesso. Anche il partito comunista più forte del mondo, quello sovietico, a un certo punto è caduto: la Cina invece non ha mai avuto una sua perestrojka, un suo Michail Gorbaciov, anzi dagli anni Novanta in poi ha perfino rafforzato il suo potere. 


Il Partito comunista cinese non ha fatto la fine di quello russo, e un motivo ci sarà. “L’elemento chiave è il pragmatismo cinese”, dice al Foglio il sinologo Maurizio Scarpari, “legato a un altro concetto importante del pensiero tradizionale cinese, cioè la flessibilità e l’adattabilità a una situazione che cambia. Puoi avere un obiettivo ma devi essere capace di cambiare prontamente la strategia del momento, mantenendo sempre il focus sulla tenuta del Partito. Questa mancanza di rigidità fa la differenza nella storia del Partito comunista cinese con gli altri partiti comunisti del mondo, come quello sovietico per esempio”. Inoltre, secondo Scarpari, la Cina gode anche di un sistema di riforme diverso da quello dell’ex Urss: “Un’idea geniale che si deve soprattutto a Deng Xiaoping è quella di fare delle piccole sperimentazioni, completamente eterodosse rispetto al modello comunista, in alcune parti marginali del paese, e una volta che quelle idee di riforma funzionano bene poi vengono applicate a livello più grande e alla fine anche a livello nazionale. La capacità di sperimentare le possibili riforme e poi farle diventare nazionali è stato fondamentale nella politica di Deng dagli anni Settanta e Ottanta. Ha evitato gli errori di tutti i partiti comunisti internazionali, perché facevano grandi piani quinquennali e poi erano costretti a seguirli, ma il mondo cambia velocemente, ed è inevitabile sperimentare i cambiamenti. Si introducevano elementi di capitalismo in aree piccole e sperimentali”. E poi c’è l’esempio negativo, dice Scarpari: “Avendo avuto l’esempio di quel che è successo in Unione sovietica il Partito ha capito che non doveva fare gli stessi errori”. L’esempio principe è Piazza Tiananmen, spiega Scarpari: quando dopo alcune aperture sono iniziate le proteste, in sostanza, si è capito che bisognava richiudere tutto. Per Giulia Sciorati, ricercatrice dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e all’università di Trento, l’esempio dell’Unione sovietica è uno dei motivi che spiegano la tenuta centenaria del Partito comunista cinese: “Basti pensare al periodo della storia cinese tra il 1989 e il 1991. E’ il periodo in cui il Partito è arrivato al punto di maggior minaccia per la sua sopravvivenza, c’era molta tensione, seguita poi dal crollo dell’Urss. Contrariamente alla letteratura occidentale, in Cina il crollo del partito sovietico è stato studiato andando a cercare di capire quali fossero gli elementi che avevano contribuito al fallimento. Ed è in base a questi studi che spesso il Partito comunista a Pechino sceglie di non attuare le stesse riforme e liberalizzazioni, perché sono identificate come una delle ragioni del fallimento sovietico”. 


Anche secondo James Gethyn Evans, del Fairbank Center per gli studi cinesi di Harvard, “la Cina ha un modello molto adattabile rispetto a quello sovietico, una specie di leninismo consultivo,  particolarmente con Deng c’era un gruppo di persone che prendeva le decisioni e non soltanto un uomo. C’è poi la teoria secondo la quale il Partito viene legittimato dalle performance, cioè il partito provvede a dare ai cittadini quello di cui hanno bisogno e questo giustifica le sue decisioni. Altri dicono che la legittimità viene data dalla coercizione, ma personalmente penso che la coercizione da sola non basti a spiegare il quadro completo”.

Il Partito di oggi però è molto cambiato rispetto a quello di trent’anni fa. “Inizialmente c’era un’ideologia trainante, che prendeva forza dal contestare un sistema che non aveva funzionato, e dall’opporsi a realtà esterne che avevano logorato il paese”, dice Francesca Ghiretti, ricercatrice all’Istituto affari internazionali (Iai). “Quando l’ideologia ha smesso di essere sufficiente, la repressione e le varie purghe nei confronti di personaggi scomodi o di interi movimenti, come nel caso della Rivoluzione culturale, ha fatto sì che il partito, quando poteva nascere un elemento di dissidenza, utilizzasse la repressione, mantenendo il potere. Così è accaduto nel 1989. C’è poi da considerare che nella Cina post 1979, bene o male il cittadino medio sentiva poco l’elemento repressivo e vedeva le proprie condizioni di vita migliorare. E visto che nel prossimo periodo molto probabilmente questo miglioramento rallenterà, ecco che tornano a essere fondamentali ideologia e repressione”. 

Se il partito si tenesse insieme solo grazie alla legittimità delle performance, soprattutto economiche, ogni anno avrebbe una specie di test da superare. Ma cosa succede se a un certo punto l’economia rallenta? “C’è una nuova corrente che sostiene che il partito è legittimato dalla storia. Xi è andato a cercare nella storia gli elementi della sua legittimità, ma non è così facile. Durante questi cento anni di partito ci sono stati molti problemi. Se si guarda alla fondazione, per esempio, c’erano tantissimi partiti comunisti che erano in competizione  tra loro, e anche dopo aver preso il potere ci sono stati dei periodi molto difficili. Con i leader precedenti si passava attraverso un riconoscimento degli errori del passato per migliorarsi. Ma nell’èra di Xi Jinping è diverso, lui dice: siamo tutti uguali e la storia è la stessa. Avere il controllo della storia è molto importante per il partito di oggi, ma deve anche essere molto selettivo su cosa scegliere dal passato per riaffermare la sua legittimità”, dice Evans. 

L’ideologia è ciò che caratterizza le celebrazioni a Pechino per i cento anni del Partito comunista cinese, che sono iniziate due giorni fa con una serata di gala in stile nordcoreano allo stadio olimpico di Pechino. La performance di balli, canti e coreografie dava una versione della storia della Cina rivista e corretta secondo i canoni del leader Xi Jinping. “La tenacia con cui vengono difesi i valori comunisti è essenziale per la tenuta del Partito, naturalmente i valori del comunismo nella sua interpretazione maoista”, dice Scarpari. “Non è un caso se la politica di Xi Jinping ha rivalutato e non ha rinnegato Mao, al limite ne ha ridotto l’influenza, ma è lì che si ritorna sempre. Il maoismo è ancora saldo. Il partito può aver fatto in passato qualche autocritica ma in modo limitato, ha sempre guardato avanti perché il suo obiettivo è guidare il popolo. Ha un suo impianto dottrinale di fondo che rimane immobile, e il resto viene continuamente aggiornato con l’evolversi del mondo, con elementi di liberalismo, con il capitalismo. L’importante è che non vengano messi in discussione i cardini”. Per Sciorati, la base fondante che muove tutte le decisioni politiche prese a Pechino riguarda proprio la sopravvivenza del partito stesso: “Sapendo che prima di ogni altra cosa ci deve essere la tenuta del Partito comunista, allora il resto può essere adattabile e modificabile”. Ma quanto c’è di quel partito e di quella ideologia che cinquant’anni fa aveva reclutato mezzo mondo, ancora oggi, nella Cina contemporanea? La modernizzazione del Partito, dice Sciorati, è un processo che va avanti da decenni e anche alla base delle riforme da Deng in poi c’era il marxismo, che oggi però non si vede più. “Il partito di Xi Jinping usa il comunismo per legittimare il pensiero politico del leader. Per esempio con la questione del nazionalismo, della reinterpretazione della storia, la fine del secolo delle umiliazioni, la Cina che torna allo status che aveva prima delle guerre dell’oppio: ecco, tutta questa ideologia usa la tradizione e la storia cinese come fonte di legittimazione”. 

Un partito che però poi così granitico non è: “Alla fine buona parte della campagna contro la corruzione di Xi Jinping era volta a epurare correnti e persone che a lui stavano scomode, basti pensare a Bo Xilai”, spiega Francesca Ghiretti. “Nel Partito comunista cinese ci sono sempre state le correnti, ed è il motivo per cui sorge l’elemento repressivo e determinate figure vengono epurate. Prendiamo il caso di Deng Xiaoping: quando il Grande timoniere muore, è una corrente diversa a farsi strada”. Per evitare questo cambio repentino di leadership, si crea “questo sistema di check and balances per fare in modo che non si ripresenti più quella situazione. Così alle correnti viene dato un spazio dove possono esprimersi. E’ stato così per diversi anni, ci sono correnti più potenti di altre, sappiamo per esempio che quella di Shanghai ha sempre avuto un potere particolare rispetto alla linea di Partito, ma con Xi l’obiettivo è quello di mettere a tacere le posizioni discordanti. Anche molti intellettuali che un giorno provano a dire la loro il giorno dopo sono costretti a smentire. Non è che prima si potesse parlare di tutto, ma c’era più tolleranza riguardo a posizioni diverse che non mettevano in discussione il governo del Partito. Si discuteva su linee differenti. Adesso no: la linea è una e deve essere quella”, dice Ghiretti. “Dal punto di vista del partito le correnti sono positive”, dice Scarpari. “Ci sono centinaia, forse migliaia, di organizzazioni che lavorano per il Partito, ovviamente anche con punti di vista diversi. Il dibattito è all’interno dei vari livelli in cui si forma il Partito: quando si sceglie una politica c’è uno studio dietro approfondito, un dibattito, che magari non emerge ma c’è. Ogni paese del mondo viene studiato con attenzione, e lo dimostra la Via della seta. Hanno un apparato estremamente funzionale che è il risultato di competenza e di organizzazione che non hanno pari nel mondo. E’ monolitico ma con una serie di sfaccettature, insomma non è statico, alterna momenti di apertura e di chiusura. L’errore per noi è guardare la politica cinese come qualcosa di statico: non lo è”.

Ma come mai questa Cina ha ancora questo fascino dal punto di vista dell’ideologia comunista? James Gethyn Evans dice al Foglio che il maoismo negli anni Sessanta e Settanta diventò simbolo di un movimento anti oppressione delle minoranze, anti colonialismo e anti imperialismo. “Non necessariamente credevano che la Cina fosse il posto più bello del mondo ma adottavano il maoismo perché era un simbolo. Oggi c’è un revival di Mao, per esempio in America lo evoca sia l’estrema destra sia l’estrema sinistra. Non è tanto credere in qualcosa, ma essere anti qualcosa”. 

*  in una versione precedente di questo articolo era scritto “i cento anni dalla fondazione”. Il refuso è stato corretto 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.