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in cerca di consenso

Così il Pd è finito nella trappola del ddl Zan

Nicoletta Tiliacos

Non esistono “leggi attese da tanto”, ma leggi buone o sbagliate. E questa è tanto vaga quanto acchiappa like

In epoca di politicamente corretto, sarà possibile notare, senza rischiare la gogna, che l’arroccamento del Pd sulla trinceao ddl Zan o morte” è segno di sordità e cecità desolanti? Una cecità e una sordità che partono da lontano. Almeno da quando, a segnalare trappole e incongruenze di una legge concepita male e scritta peggio, si sono alzate, prime tra tutte, molte voci del mondo femminista. Voci rimaste a lungo isolate, vista la gran timidezza mostrata all’inizio perfino dal mondo cattolico. Dalle prese di posizione di Arcilesbica, di Se non ora quando-libere, di RadFem Italia, la parola di quel mondo ben temprato nella battaglia contro discriminazioni e violenza – e che continua a chiedere almeno un cambiamento delle formulazioni più tendenziose e fumose del ddl Zan – è rimasta sostanzialmente inascoltata anche da parte di chi, il Partito democratico, avrebbe dovuto darle lo spazio e il credito che merita. 

 

Negli schemi rigidi della politica politicante, sono voci troppo imbarazzanti. Molto più remunerativo, da un punto di vista dell’immagine, tuonare contro le ingerenze cattoliche, le trame omofobe della destra e, da ultimo, i voltafaccia renziani. Un grande classico, quest’ultimo, che fa trovare al Pd tanti bei compagni di strada acchiappa-like, come i Ferragnez. Dei quali, del resto, nessuno può contestare il diritto di schierarsi come credono e di usare le polemiche sul ddl Zan come ulteriore motivo di autopromozione. Sarebbe ben strano se non ne approfittassero, in fondo s’è visto di peggio. 

 

Il peggio è l’appiattimento del Pd e del suo segretario su un testo di legge che pretende di configurare reati penali lasciandoli nella più inaccettabile indeterminatezza. Sotto la bandiera “aspettiamo da troppo tempo una legge”, si avalla quell’“abisso interpretativo”, come l’ha chiamato su Avvenire il giurista Natalino Irti, che nega nei fatti le garanzie costituzionali, quando afferma (art. 4) che sono ammesse “la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”. Idoneità o no, configurazione di concreto pericolo o meno, chi lo deciderà? Il giudice, perbacco. Ma lo farà sulla base di sensazioni, più che di fatti, perché di fatti il ddl Zan non si occupa, visto che lascia la definizione di un reato penale in una beata vaghezza. E pazienza, se il nostro ordinamento, in materia penale, quella vaghezza non la possa ammettere.

 

C’è poi un altro aspetto molto importante che sta a cuore al mondo femminista che si oppone al ddl Zan nella formulazione con cui si presenterà, il 13 luglio, all’approvazione in Senato. È la questione del genere, parola grimaldello che, per voler ricomprendere tutto, tutto azzera. Lì risiedono la vera ragion d’essere, il cuore e il tono dell’intera legge, a partire dal suo primo articolo. La Rete femminista contro il ddl Zan ha scritto, senza tanti giri di parole, che se il vero scopo fosse davvero la tutela delle persone omosessuali e transessuali, la formulazione del ddl Scalfarotto del 2018, nel quale si parla chiaramente di omofobia e transfobia, otterrebbe quel risultato senza scomodare l’“identità di genere”. Ma il trucco è proprio quello di far passare surrettiziamente l’autocertificazione di genere, cioè la possibilità di “decidere liberamente il proprio sesso a prescindere da quello di nascita, con un semplice atto amministrativo, senza perizie o sentenze”. Su questo “tema sensibilissimo, che nulla ha a che vedere con i diritti delle persone omosessuali e transessuali, è necessaria la più ampia e approfondita discussione pubblica”. Proprio quella che il Pd e i 5 stelle, strenui fautori della partecipazione popolare solo quando conviene, vogliono saltare a piè pari attraverso il ddl Zan. 

 

Di autocertificazione del sesso si sta parlando un po’ ovunque, nel mondo occidentale. Per esempio in Gran Bretagna, dove il 94 per cento della popolazione, secondo un sondaggio del Times, si è dichiarato contrario. E in Spagna, dove attorno alla ley trans, attualmente in discussione, si consuma lo scontro tra buona parte del femminismo e i fautori della legge. La norma lì in discussione autorizza chiunque a farsi registrare come maschio o femmina senza transizioni né perizie né sentenze. Salvo che, se si capisce di essersi sbagliati, per tornare indietro al proprio sesso di nascita bisognerà chiedere il permesso a un giudice. Orrori giuridici e antropologici? Certo, ma almeno in Spagna il motivo del contendere è chiaro: si discute palesemente di autocertificazione del sesso.

 

In Italia, grazie al ddl Zan, si fa direttamente a meno di discuterne. Si dà per scontata, infilandola in un testo di legge che parla di discriminazioni e aggirando le procedure prescritte dal meccanismo parlamentare di formazione delle leggi. Davvero il Partito democratico vuole questo? Cito ancora la Rete femminista contro il ddl Zan: “La partita è troppo importante perché venga lasciata ai tatticismi elettoralistici e ai personalismi degli uomini che fanno la politica. In questione, con l’introduzione dell’identità di genere, è un modello di civiltà in cui la sessuazione umana viene ridotta all’insignificanza, questione che riguarda tutte e tutti”. Non esistono leggi attese da tanto, esistono buone leggi e cattive leggi, e il ddl Zan è una cattiva legge.

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