Mario Segni ha pubblicato "Il colpo di Stato del 1964: la madre di tutte le fake news" (Rubettino). Nella foto con il padre Antonio (LaPresse)

“Il colpo di Stato del '64”

Un golpe di fuffa

Natale D'Amico e Alberto Mingardi

Smentite tutte le fake news, ecco cosa resta dell’eredità del presidente Antonio Segni. Una lezione sulla spesa pubblica per i politici di oggi

Con il suo nuovo libro, “Il colpo di Stato del ’64” (Rubbettino, 2021, pp. 186), Mario Segni non ha inteso solo fare una testimonianza di affetto alla memoria di suo padre. In meno di duecento pagine, Segni smonta “la madre di tutte le fake news”: cioè il progetto di svolta autoritaria intestato a Antonio Segni, quand’era al Quirinale, sostanzialmente dall’Espresso e da una coppia di giornalisti di non poco peso nella storia della Repubblica, Eugenio Scalfari e Lino Jannuzzi. La “fake news” ebbe però conseguenze politiche dirompenti: nel breve, s’intrecciò col tentativo di rilancio della formula del centrosinistra, rafforzandola vistosamente. Nel medio termine, divenne una specie di calco sul quale vennero modellate quelle che sarebbero state le varie teorie del “doppio Stato”, votate a indebolire, nella stagione del terrorismo, la legittimità delle istituzioni repubblicane. Forse per il lettore di oggi il libro di Segni è importante anche sotto un altro aspetto.

 

In qualche modo, costringe a ripensare a quegli episodi non come a un tentato colpo di Stato ma come alla “crisi del ’64”. A un momento politico delicato, nel quale il primo governo Moro cadde non per una cabala ma per precise ragioni economiche. Il centrosinistra, anche se non ce lo ricordiamo, ebbe inizio sotto auspici tutt’altro che buoni. Preoccupazioni profonde erano condivise dalle prime due cariche dello Stato, Segni e Merzagora, e dal governatore della Banca d’Italia, un Guido Carli da poco subentrato a Domenico Menichella. L’Italia veniva da uno straordinario processo di catching up che la aveva portata a ridurre, a una velocità inusitata, il divario che la separava dalle nazioni più ricche. Tra il 1950 e il 1962 il reddito nazionale era cresciuto al tasso medio annuo del 6,1 per cento, in condizioni di stabilità del livello di prezzi. Inoltre vi fu la costituzione di cospicui avanzi della bilancia dei pagamenti, una straordinaria celerità nell’accumulazione di capitale e il sostanziale equilibrio delle finanze pubbliche. Tutto questo venne meno tra il ’62 e il ’63. Il reddito nazionale continuò ad aumentare (+4,8 per cento), seppure a una velocità che costituiva il minimo dal 1959. Ma, quel che più conta, comparvero gravi squilibri.

 

In due anni i redditi da lavoro dipendente crebbero del 43 per cento; nonostante la dinamica sostenuta della produttività, ciò si tradusse in un balzo nel costo del lavoro per unità di prodotto (nei due anni, il 27 per cento). Parte di questo incremento si trasferì sui prezzi finali, che giunsero ad aumentare nel ’63 del 7,7 per cento, ma parte si tramutò in una drastica caduta dei profitti. L’aumento dei prezzi interni peggiorò drasticamente la condizione della bilancia dei pagamenti, che volse velocemente al passivo. Gli investimenti crollarono, scendendo sotto il livello necessario per ammortizzare il consumo del capitale esistente. E comparve quel fenomeno della “esportazione di capitali” di cui si continuerà a discutere per i decenni a venire. Nel frattempo la situazione della finanza pubblica, soprattutto nella sua versione allargata che comprendeva gli enti del parastato, peggiorò repentinamente. Gli sconvolgimenti avvenuti in un breve lasso di tempo furono dunque clamorosi. Non deve stupire la preoccupazione del presidente della Repubblica dell’epoca; e sarebbe stato ben strano se quelle preoccupazioni egli non le avesse rappresentate con la necessaria urgenza ai protagonisti della vicenda politica del tempo.

 

Già il 21 giugno del 1964, a pochi giorni dall’apertura della crisi di governo, Antonio Segni scriveva al presidente del Consiglio Moro, riferendosi ai “provvedimenti annunciati dai giornali”: “A parte le questioni sulla costituzionalità di alcuni provvedimenti vi è la gravità derivante dal cumulo di essi: vi è da temere che, se fossero adottati, l’Italia sarebbe costretta a uscire dalla Cee, per lo statalismo eccessivo, politicamente produttivo di un incremento delle forze comuniste, economicamente negativo per l’inevitabile dispersione dei mezzi e aggravamento dei costi”. Anche in altre missive, e pure con destinatari diversi, il presidente fa ripetuto riferimento ai tre temi sopra richiamati: talune norme proposte o progetti annunciati violavano i principi costituzionali; i loro effetti potevano essere economicamente catastrofici; da essi sarebbe potuta conseguire l’uscita dell’Italia dalla Comunità economica europea e dal novero delle economie di mercato. Segni senior superò i limiti della propria funzione? Non sembra. Le motivazioni addotte nei suoi ripetuti interventi sui maggiori attori politici rientrano a pieno titolo nelle funzioni presidenziali.

 

Ciò è ovviamente vero con riferimento alle sue preoccupazioni riguardo al rispetto dei vincoli costituzionali; che lo portavano a ribadire un ruolo presidenziale che si era affermato fin dalla prima presidenza di Einaudi, e che lo stesso Segni aveva più volte concretamente utilizzato per rinviare alle Camere norme che gli apparivano in contrasto con la Costituzione, in particolare con la disciplina del bilancio pubblico. Almeno con il senno di poi, è altrettanto certo che il presidente Segni rimaneva entro i confini della propria funzione quando richiamava il rischio di uscita dell’Italia dalla Cee. Perché dopo di lui, e fino al tempo presente, numerosi presidenti si sono in modalità diverse posti a garanzia dell’appartenenza dell’Italia alle comuni istituzioni europee e del rispetto delle regole che questa appartenenza comporta. Fino a farsi promotori di “governi del presidente” – esplicitamente volti a fornire quella garanzia e a rispettare quelle regole – ripetutamente sperimentati a partire dai primi anni 90 del secolo scorso. Si pensi per esempio a come si è comportato, in circostanze forse assai diverse per il profilo degli attori politici in campo ma non per la velocità del deterioramento delle finanze pubbliche, Giorgio Napolitano nel 2011.

 

Si può qui solo di sfuggita notare come quei “governi del presidente” per molti versi richiamino le soluzioni che in quei mesi del 1964 andava proponendo Cesare Merzagora, e che allora destarono tanto scandalo. Se Antonio Segni, riuscì a “frenare” il corso di scelte di politica economica che producevano gli effetti che si son visti, non si può che fargliene merito. Forse rammaricandosi invece del fatto che quel “freno”, soprattutto per quanto concerne le dinamiche della finanza pubblica, fu poi troppo allentato. Ciò che più infatti stupisce, ripercorrendo quelle vicende, è come la malattia del Presidente coincida col rilascio completo del freno. La politica, soprattutto quella di massa, travalica sempre la dimensione individuale. I profeti solitari si contano sulle dita di una mano, raramente accedono alle più alte cariche costituzionali. Sarebbe legittimo immaginare che l’opera di Segni, e di Merzagora con lui, fosse in qualche modo il terminale di preoccupazioni diffuse e radicate nella stessa Democrazia cristiana. Invece, quella sensibilità interna al campo democristiano si perde velocemente. Un’articolazione di pensiero, una proposta politica coerentemente declinata dell’alternativa “di destra” al centrosinistra, all’interno della medesima democrazia cristiana scompare in un sospiro.

 

L’impressione, perlomeno per noi che non abbiamo radici nell’esperienza politica democratico-cristiana, è che i giochi fossero fatti, per così dire, prima: con la morte di Alcide De Gasperi anzitutto e poi con la scomparsa di Don Luigi Sturzo. Il primo, di fatto la figura che trasporta nella DC l’esperienza della politica pre-fascista e sensibilità liberali. Il secondo, per quanto marginalizzato fosse, la coscienza critica del cattolicesimo politico. Ha scritto Gianni Baget Bozzo che “con la morte di Sturzo viene meno nel partito una battaglia morale e politica per alcuni grandi temi di interessi pubblico (…) La libertà, la democrazia, lo Stato di diritto erano per lui la moralità applicata alla vita pubblica (…) Sturzo temeva il crearsi di una nuova classe, una oligarchia fondata sui partiti, sull’industria di Stato, sui favori che essa suscitava”. L’impressione, leggendo il figlio Mario è che Antonio Segni fosse rimasto l’unico a chiedersi (come scrive in una lettera privata all’amico Luigi Carraro, e quindi senza nessuna delle prudenze di un uomo pubblico che parla in pubblico): “è possibile estendere l’attività economica dello Stato senza creare un disastro economico in tutta la nazione?”. Siamo davvero a una svolta cruciale della storia della Repubblica.

 

La stessa storia del centrosinistra, suggerisce indirettamente il libro di Segni, andrebbe letta senza trionfalismi. Le elezioni del ’63 vedono un esito che si presenta, per gli standard di allora, come sorprendente: la Dc perde il 4 per cento e il Pli, l’unica forza di opposizione al centrosinistra, ottiene invece il 7 per cento. Mettiamoci nei panni del gruppo dirigente democristiano: non sono elezioni che suffragano la formula politica che aveva sostenuto. Eppure quella formula politica non viene neppure rivista, anzi si rafforza, sopravvive indenne anche ai moniti, nell’ordine, del presidente della Repubblica, del presidente del Senato, del Governatore della Banca d’Italia. Alla fine, tutte le tensioni dimostrano solo, come Nenni dirà, che dal centrosinistra si esce solo per rientrarvi. L’ictus di Antonio Segni toglie di torno una voce critica, e col vantaggio del pulpito più prestigioso. Ma non se ne leveranno altre. Mario Segni spiega, en passant, col fattore umano lo squagliarsi di qualsiasi effettiva opposizione politica allo spostamento a sinistra delle policies di governo. Sottolinea l’affiatamento, lo spirito di camaraderie che lega i fondatori della Democrazia Cristiana, più forte della tempesta politica del momento. È una tesi suggestiva, che sottolinea come anche la storia dei partiti politici sia un’avventura umana, nella quale pertanto ci sono valori e sensibilità che necessariamente si impongono sul puro discorso politico.

 

Ma appare anche una eccessiva riduzione del politico all’umano. In tutta evidenza, con la formula del centrosinistra, la Democrazia cristiana sperava di andare incontro alla modernità, confidava di sapere meglio interpretare i tempi, e questo presupponeva in parte l’affrancarsi dalla gerarchia ecclesiastica e pure, per citare di nuovo Baget Bozzo, “dalla tutela liberale sotto cui la linea di De Gasperi l’ha posta”. Va da sé che questo sdoganamento all’epoca sembrava perfettamente allineato con le più nuove e moderne sensibilità intellettuali. Collocata al centro della spettro politico, ma lontana da una destra per definizione infrequentabile, la Dc non è mai stata un partito conservatore e pratica, da allora in avanti, una gestione delle finanze pubbliche aliena da scrupoli prudenziali. Non c’è chi raccolga non diciamo il pensiero economico di Luigi Sturzo: ma nemmeno i timori del presidente Segni. In una fase storica come l’attuale, nella quale non manca l’idea che gli aumenti di spesa pubblica possano essere affrontati con la stessa spensieratezza che segnò gli anni Sessanta e Settanta (anche se purtroppo non abbiamo alle spalle un decennio a tassi di crescita superiori al 5 per cento), forse il libro di Segni è importante non solo sotto il profilo storiografico – ma anche per riflettere sulle variabili politiche che conducono al desiderio di rimuovere ogni freno alla spesa.

 

Con questo suo lavoro Mario Segni chiude – speriamo definitivamente – la discussione intorno alla “fake news” del tentato colpo di Stato, e persino a quella subordinata del “tintinnar di sciabole” che sarebbe stato fatto balenare affinché le magnifiche forze e progressive del socialismo venissero a più miti consigli. E questo è un merito del libro. L’altro merito è – speriamo – quello di riaprire la discussione intorno alla scomparsa, con Antonio Segni, nel partito che a lungo resterà maggioranza relativa, di una schietta posizione politica volta a tenere in equilibrio il bilancio pubblico e a limitare il panstatalismo economico. E qui la fake news ritorna: come consapevole strumento politico agitato per ridurre in condizione di subalternità culturale chiunque osasse opporsi allo statalismo dilagante.

 

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