"Bella ciao" cantata dai balconi durante un flash mob per la festa della liberazione del 2020 (Ansa)

La dura legge di Bella ciao

Francesco Cundari

Qualcuno vorrebbe istituzionalizzarla, ma la sinistra sceglie sempre l’intransigenza sbagliata. Come quella linguistica

Quando ero giovane e scapestrato, ricordo che in giro per l’Europa, alle manifestazioni dei partiti della sinistra, si cercava d’affratellarsi cantando ciascuno le canzoni degli altri, quelle che sapeva anche chi non parlava una parola della lingua in cui erano state scritte, la Marsigliese con i francofoni, Blowin’ in the wind con gli anglofoni (era un tempo precocemente postideologico e dalle identità politiche più fluide d’ogni identità di genere), e chi si trovava sul palco, sul camioncino, sulla cassetta della frutta con il microfono in mano, a un certo punto, volgeva lo sguardo sul rumoroso gruppetto dei compagni italiani, e si chiedeva che diavolo inventarsi per far contenti anche loro. Quando serviva una canzone politica scritta in una delle lingue meno parlate del mondo, che tutti potessero cantare insieme – tedeschi, polacchi, svedesi – la scelta cadeva sempre lì, ed era subito un successone. Perché Bella ciao la sapevano e la cantavano tutti, a squarciagola, spesso anche perché in italiano cantavano solo il ritornello, e il resto ciascuno nella lingua sua. Perché ce l’avevano tutti, una versione di Bella ciao.

 

Dai tempi di Yves Montand, che da buon figlio di emigranti socialisti in fuga dal fascismo – all’anagrafe faceva Ivo Livi – la portò al successo in Francia cantandola in italiano, come hanno fatto in tanti, da Joan Baez a Mercedes Sosa, fronteggiando come potevano le asperità della pronuncia, non c’è praticamente cantautore, cantante impegnato, folk singer del mondo che non l’abbia ripresa, riarrangiata, tradotta e fatta propria. “One fine morning I woke up early, Bella ciao, bella ciao, bella ciao”, ha cantato l’americano Tom Waits. “Eines Morgens in aller Frühe, Bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao”, ha cantato il tedesco Hannes Wader. “Una mañana me he levantado, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao, ciao”, ha cantato l’ispanofrancese Manu Chao. Persino i protagonisti di quella specie di internazionale antagonista-complottista della “Casa de papel”, la serie spagnola sulla banda che decide di rapinare la zecca di stato e le banche cattive, mescolando fluidamente crisi finanziaria, crisi adolescenziale e crisi di mezza età, cantano Bella ciao per lunghi minuti, durante una delle scene più famose (e non mancano gli esegeti pronti a spiegare che non si tratta di un semplice omaggio, ma di un riferimento fondamentale che collega la resistenza al fascismo dei nostri partigiani alla lotta di quei rapinatori-gentiluomini contro la dittatura delle banche: se mai ne facessero uno spin-off italiano, la parte del professore, ideologo e capo banda, secondo me, dovrebbero darla a Gianluigi Paragone).

 

Eppure a nessuno, che io ricordi, è mai venuto in mente di mettere Bella ciao in una proposta di legge, per istituzionalizzarla. Almeno non fino al 21 aprile 2021, storico giorno in cui, a quasi ottant’anni dalla Resistenza, a un gruppo di parlamentari particolarmente sensibili al tema è parso giunto il momento di colmare la lacuna, con una legge di un solo articolo e due commi, che dice così: 1. “La Repubblica riconosce la canzone ‘Bella ciao’ quale espressione popolare dei valori fondanti della propria nascita e del proprio sviluppo”. 2. “La canzone ‘Bella ciao’ è eseguita, dopo l’inno nazionale, in occasione delle cerimonie ufficiali per i festeggiamenti del 25 aprile, anniversario della Liberazione dal nazifascismo”. Nella presentazione della proposta si precisa che l’origine della melodia “può essere fatta risalire a ben prima del XX secolo, e si perde tra i canti della tradizione popolare slava”; che la traccia più antica di tale musica è “un’incisione del 1919, in un disco a 78 giri, del fisarmonicista tzigano Mishka Ziganoff”; che se prendiamo “la raccolta di canzoni ‘Canta Partigiano!’, edita da Panfilo editore di Cuneo nel 1945, o la rivista ‘Folklore’ che, nel 1946, dedica due numeri ai canti partigiani o ancora le varie edizioni del ‘Canzoniere italiano’ di Pier Paolo Pasolini, monumentale antologia della poesia popolare italiana, in nessuno di questi documenti compare il testo di ‘Bella ciao’”; che “la prima presentazione della canzone avviene nel 1953, sulla rivista ‘La Lapa’ a cura dell’antropologo culturale Alberto Mario Cirese”; che successivamente, nel 1955, il canto è inserito in una raccolta dal titolo ‘Canzoni partigiane e democratiche’, a cura della commissione giovanile del Partito socialista italiano”; che il riconoscimento popolare arriva “nel 1964 in occasione del Festival dei due mondi di Spoleto grazie alla presentazione, da parte de ‘Il nuovo canzoniere italiano’, di due versioni del testo della canzone, quello che racconta la giornata di lavoro di una mondina e quello che racconta la lotta partigiana” (curiosamente, non si fa cenno al fatto che giusto l’anno prima, nel 1963, Yves Montand l’ha portata al successo in Francia, e anche in Italia, ovviamente, ma figuriamoci se le mie pigre ricerche di pochi minuti su Wikipedia possono mettere in dubbio un documento ufficiale della Camera dei deputati); per arrivare, infine, agli anni settanta, in cui “la canzone ‘Bella ciao’ risponde pienamente alla necessità di rinsaldare, con un chiaro spirito pacificatore – pacificatore? sicuri, sicuri? – il concetto di un’Unità nazionale nata dalla lotta di Resistenza (...) e dalla difesa dei valori della libertà e della democrazia contro ogni forma di prevaricazione e di violazione dei diritti civili”.

 

Tralasciando il rilievo della questione dei diritti civili nel testo di Bella ciao, che non saprei dove individuare, mi chiedo se la presentazione di una proposta di legge, in ogni caso, sia l’occasione appropriata per una simile lezione di storia della musica. O se anche a voi, per un attimo, dall’Aula della Camera non è sembrato di essere trasportati nell’aula dell’Istituto Marilyn Monroe immaginato da Nanni Moretti in “Bianca”, con il professore di Storia che cominciava la lezione così: “Gino, all’ultimo momento, ha perso il posto. Estate del 60, c’è il governo Tambroni, dei disordini a Reggio Emilia, cinque o sei cittadini uccisi dalla polizia, e Gino era triste. Trova una bella ragazza e se ne vanno in Sicilia, in un piccolo villaggio nel cuore del Mediterraneo: il sole, l’amore, lo iodio, il corpo. Quando tornerà a Milano, alla fine del mese, avrà in tasca a malapena gli spiccioli per il filobus. Ma anche un foglietto, sul quale ha scarabocchiato alcune note…” (seguiva accensione del jukebox e ascolto del “Cielo in una stanza”, di Gino Paoli, in religioso silenzio). Per carità, sappiamo tutti che la commistione tra politica, canzoni e canzonette è cominciata ben prima del 2021. E certo oggi è facile cadere in nostalgie senza senso, in snobismi infondati, in paragoni anacronistici. Finire per trattare con sprezzatura un presente che non si capisce, in nome di un passato che non si è vissuto, e per questo è tanto più facile mitizzare. Viene in mente il sottotitolo del libro di Filippo Ceccarelli, “Invano” (Feltrinelli): “Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”. Dove si ricorda tra l’altro quella “serietà” che “sempre fioriva sulla bocca di Togliatti: politica seria, cultura seria, preparazione seria, studi seri, persone serie”. Un tic linguistico che sarebbe stato tramandato a lungo tra i dirigenti delle successive generazioni – almeno a chiacchiere, tutti serissimi – fino ai tempi più recenti. Fino a “questi qua”.

 

Del resto, il vertice del Pci ha sempre esibito una certa tradizione sabauda, che guardava con degnazione tanto ai “bravi compagni” dell’Emilia-Romagna, insuperabili nel lavoro organizzativo ma poco portati per la politica, quanto ai meno affidabili compagni romani, pure troppo portati per la politica, e assai meno per il lavoro. Un partito che non per niente si vantava di avere avuto, per la sua intera esistenza, solo segretari provenienti dal Regno di Sardegna: il sardo Gramsci; il ligure, e piemontese d’adozione, Togliatti; il piemontese Longo; il sardo Berlinguer; il ligure Natta; il piemontese Occhetto. “Il Partito comunista – ha scritto nelle sue memorie Henry Kissinger – era un Piemonte appoggiato da Mosca, come il Piemonte tradizionale era appoggiato dalla Francia: disciplinato, razionale, severo”. Oggi che tutto si è rimpicciolito e alleggerito, guardando a ciò che è venuto dopo il Pci, si potrebbe parlare semmai di un Molise appoggiato dalla Giamaica. Così viene da domandarsi come la spiegherebbero ai dirigenti comunisti di allora, per esempio a uno come Giancarlo Pajetta, che al momento della Liberazione aveva passato in carcere metà della sua vita, l’improvvisa necessità della loro legge, i firmatari della proposta di oggi, magari dopo averlo aggiornato sui fatti più recenti, dalla pandemia mondiale alla relativa crisi economica. Immagino che gli parlerebbero dell’importanza dei simboli, della memoria, dell’identità. Immagino che gli direbbero che ai suoi tempi non c’era bisogno di farla tanto lunga, perché queste cose erano ben vive, e proprio perciò ce n’è bisogno adesso, che sembrano affievolirsi.

 

Immagino che gli parlerebbero di quanto conti oggi la “politica dell’identità” – mi auguro che a nessuno di loro verrebbe in mente di dirglielo in inglese – e mi domando se non la intenderebbe come “politica della tautologia”. Mi domando soprattutto come spiegherebbero tanta intransigenza sul terreno delle parole (chissà se avrebbero il coraggio di spiegargli anche la necessità dello schwa, la desinenza neutra, o dell’asterisco, e l’importanza di dire “amic*” e “compagn*”), a fronte di tanti compromessi su ogni altro genere di terreno, ad esempio sul finanziamento della guardia costiera libica, che sbatte i migranti in veri e propri campi di prigionia e di tortura, o sugli accordi europei con la Turchia di Erdogan, che tiene in condizioni non dissimili milioni di profughi. E nel momento in cui, a volte pure con buone ragioni, a volte forse meno, a sinistra di compromessi se ne fanno parecchi anche sulle tutele e gli interessi dei lavoratori, cioè su quella che dovrebbe essere la ragione sociale della ditta.

 

Mi viene in mente un altro personaggio del libro di Ceccarelli, lo definisco così perché persino il nome è talmente perfetto da sembrare inventato: il compagno Antipasqua – Pino Antipasqua – archetipo del funzionario comunista, capace di occuparsi di tutto, segretario di una sezione del Pci della periferia romana, alla Romanina (e qui verrebbero facili accostamenti con la Bolognina, perché tutti i nomi di questa storia, come appena detto, sono già letterariamente perfetti così come sono). E insomma un giorno una donna, alla Romanina, si voleva buttare dalla finestra di casa. Non era iscritta, ma per Antipasqua era comunque nella sua giurisdizione – o nei confini della sua parrocchia, fate voi – dunque trovò il modo di penetrare nell’appartamento e senza perdersi in chiacchiere andò in cucina, si mise ai fornelli e le preparò una fettina di carne. La donna scese dal davanzale e si mise a mangiare. Ecco, mi viene da pensare che se invece di prepararle la fettina si fosse messo a parlarle di identità, non so, forse quella avrebbe preferito buttarsi di sotto. Forse ha ragione Guia Soncini (“L’era della suscettibilità”, Marsilio), e la differenza di classe è l’unica differenza costantemente rimossa e negata nel discorso pubblico – specialmente negli Stati Uniti, da cui peraltro importiamo gran parte delle parole-chiave di cui il nostro discorso pubblico è fatto – per cui ci siamo convinti pure noi che tra il direttore di Vogue di colore e il portinaio (pardon, funzionario della security) che gli dice di prendere l’ascensore di servizio, scambiandolo per un fattorino (pardon, libero professionista nel campo della logistica al dettaglio), il debole sia il direttore di Vogue, vittima di “profilazione razziale”, che per questo lo fa licenziare, e non il (non più) lavoratore. Forse, per dir così, a sinistra abbiamo cominciato a fare tante questioni di stile proprio quando abbiamo smesso di vedere le questioni di classe.

 

Certo è un discorso scivoloso, che in un attimo rischia di precipitare nella giustificazione di tutte le peggiori forme di aggressione e discriminazione nei confronti di ogni possibile bersaglio, con la scusa che c’è ben altro di cui occuparsi. Io però non posso fare a meno di immaginarmi Pajetta che si sorbisce tutto questo sermone sull’importanza dei simboli, dell’identità e del linguaggio, e alla fine, imparata la lezione, domanda ai compagni di oggi se non trovino piuttosto sessista anche il testo di “Bella ciao”. Se non sappiano forse quante donne hanno partecipato in prima linea alla resistenza. Se sia giusto dare per scontato che a partire per la montagna debba essere lui, mentre lei possa al massimo corrergli dietro agitando il fazzoletto, per poi magari tornare a casa ad accudire i figli. E se insomma, prima di metterla in una legge, non avrebbero dovuto perlomeno correggere il titolo, e il testo, in “Bell*əə ciao”.

 

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