la corsa al quirinale

Mattarella avverte il Pd (e non solo): "Sono vecchio, tra otto mesi mi riposo"

Salvini vuole Draghi al Colle per andare alle elezioni, ma così indispone anche Forza Italia. Franceschini tentenna, Prodi ci spera, Gentiloni e Sassoli alla finestra. Ma nessuno ha reali possibilità. L'ipotesi della Cartabia, che passa dalla prescrizione. E la tentazione del bis di Mattarella. Una panoramica

Il capo dello stato ribadisce la sua contrarietà a una rielezione al Quirinale. Ma nel Pd c'è chi ci lavora comunque. Lo "schema Draghi" benedetto da Salvini e le contromosse a sinistra. Ecco come si è arrivati a considerare davvero l'ipotesi di un secondo mandato

Quelli che l'ipotesi la caldeggiano eccome, specie nel Pd, la prendono alla larga, fanno notare che qualsiasi altra dichiarazione d'intenti che non fosse di diniego sarebbe inopportuna, ribadiscono la sottile legge doppiezza democristiana, per cui bisogna affermare sempre il contrario di quel che davvero si vuole ("Anche sul governo diceva che, caduto Conte, non c'era altra soluzione se non le elezioni anticipate. E invece..."). Ci sta, certo. E però stavolta Sergio Mattarella pare davvero essere categorico: "Tra otto mesi il mio mandato di presidente termina. Io sono vecchio e tra qualche mese potrò riposarmi".

 

Colpisce la nettezza delle parole. E colpisce, forse, anche la circostanza. Perché il capo dello stato sceglie una visita a di giovanissimi studenti - quelli della primaria "Fiume Giallo", dalle parti del Torrino, periferia sud ovest di Roma - per annunciare l'improcrastinabilità della fine del suo mandato al Quirinale. Per uno che sa pesare ogni sospiro, come il vecchio esponente della sinistra diccì, l'aver scelto una circostanza che di certo non richiedeva alcuna presa di posizione particolare sul tema, è sintomo evidente di un'urgenza percepita: non mi tirate in ballo, non sarò io a risolvervi i problemi. E' così che in molti la leggono, la dichiarazione di Mattarella, qui in Transatlantico. 

 

Ed è chiaro che, se l'esegesi è corretta, va detto che è soprattutto al Pd che il capo dello stato si rivolge. Perché è da quelle parti, tra il Nazareno e i gruppi parlamentari, che l'ipotesi di una sua rielezione circola e non poco. Il primo, a ben vedere, era stato Luigi Di Maio, nella primavera dello scorso anno. Si disse che lo faceva per farsi perdonare lo sgarbo di inizio legislatura, quando il leader del M5s chiese l'impeachment del presidente della Repubblica, o magari per riaccreditarsi ai suoi occhi dopo il pasticcio diplomatico italofrancese intorno alla visita ai Gilet gialli. La cosa sembrò finire lì. Poi, però, nel Pd hanno iniziato a pensarci seriamente dopo il cambio di scenario imposto dall'arrivo di Mario Draghi. Un po' perché il candidato che pareva più scalpitante, quel Dario Franceschini che è gran cerimoniere delle intese rossogialle, pare non crederci più come un tempo. Un po' perché gli altri aspiranti quirinabili sono per lo più padri nobili che parlano da lontano, come il Romano Prodi che continua ad avere un grande ascendente sul segretario Enrico Letta, ma nella palude parlamentare di questa fine di legislatura finirebbero impallinati prima ancora di iniziare a correre.

 

E però una soluzione s'impone. Perché dall'altro lato c'è chi la strategia ce l'ha ben chiara: Draghi al Quirinale, crisi di governo e scioglimento immediato delle Camere. Questo è lo schema a cui lavorano Matteo Salvini e Giorgia Meloni: una promozione del premier fino al Colle, per ottenere le elezioni già nel 2022 e giocarsi, in un derby interno alla destra sovranista, la sfida per Palazzo Chigi. Una soluzione prospettata perfino con eccessiva perentorietà, se è vero che anche dentro Forza Italia, per non dire dei renziani, l'ipotesi di veder mozzata la legisaltrua - l'ultima primo del taglio dei parlamentari - semina una paura che renderebbe complicata l'apoteosi di Draghi. E però, in tutto questo parapiglia, che fa il Pd? Di candidati, a sinistra, ce ne sono fin troppi al momento per far sì che ce ne sia uno davvero. Da Paolo Gentiloni a Pier Luigi Castagnetti, da David Sassoli a Giuliano Amato, da Prodi a Franceschini fino a Pierferdinando Casini, il traffico è assai congestionato, sulla via che porta al Colle. L'ipotesi di Marta Cartabia è concreta, certo. Perché è stata presidente della Consulta, e dunque dal profilo altissimo; perché è trasversale, e perché sarebbe la prima donna presidente della Repubblica. Solo che la sua corsa verso il Quirinale si dilunga lungo la faglia più pericolosa, quella della giustizia: lei sta provando in ogni modo a smussare ogni dissidio, a indicare una svolta sul processo penale e civile che non scontenti troppo gli umori impolitici di Alfonso Bonafede e compagnia. Ma il grillismo è quel che è, e l'ostilità del M5s diventerebbe per lei esiziale, dacché senza i voti pentastellati diventa complicato gestire il pallottoliere dei grandi elettori. 

 

E così, al termine di questa rassegna, si torna a lui. A Mattarella. Che prova a sfilarsi in ogni modo, e non da oggi. E che però, al momento, resta forse il candidato più forte su cui il Pd e il M5s possono trovare un'intesa. Del resto, si dice, anche Giorgio Napolitano aveva negato fino all'ultimo; ma quando s'accorse che non c'era altra soluzione, disfece gli scatoloni già imballati e rimandò il trasloco dal Quirinale alla sua amata casa nel rione Monti. All'epoca i grillini insorsero (Ro-do-tà, Ro-do-tà), gridarono che la rielezione di un capo dello stato costituiva un "vulnus", uno "sfregio alla Costituzione". Ma erano altri tempi.