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Quale formula per Draghi: Palazzo Chigi o Quirinale?

Giuliano Ferrara

Dieci anni dopo la lettera della Bce dovrà decidere dove giocare la partita per le grandi riforme. Un dilemma sul premier

Manca poco più di un mese all’inizio del semestre bianco, il periodo di tempo in cui non è più nella disponibilità del Quirinale lo scioglimento delle Camere. Il governo Draghi deve mettere in cantiere le riforme famose, alcune delle quali sono più o meno quelle che il governatore Trichet della Banca centrale europea e il suo successore in pectore Draghi richiesero per lettera il 5 agosto del 2011, dieci anni tra poco (la lettera riservata, comunicata al governo da Daniele Franco di Bankitalia ora ministro dell’Economia, fu rivelata al pubblico alla fine di settembre di quello stesso anno). Allora al governo c’era Berlusconi, il paese era ferocemente diviso, e la linea europea per fronteggiare la crisi finanziaria che aveva colpito drammaticamente l’Italia era quella dell’austerità, della competitività, della tutela attiva della concorrenza e delle imprese, dello snellimento cosiddetto del mercato del lavoro, delle liberalizzazioni e privatizzazioni, del rigore finanziario nella spesa pubblica, dell’intervento radicale sul fisco, sulla giustizia, sulla Pubblica amministrazione.

 

Ora al governo c’è Draghi, la maggioranza è di unità nazionale, la linea europea è espansiva, si fonda sulla capacità di spesa di un debito cosiddetto buono nato da una decisione di mutualizzazione coesiva del rischio. Tutto è cambiato, in apparenza, tranne la sostanza. Il paese va riformato e modernizzato, il capitalismo incentivato e liberalizzato, la immensa spesa erogata per modificazioni strutturali e infrastrutture deve essere finalizzata al riequilibrio tra nord e sud, al sostegno di un’economia gravata dalla recessione pandemica, e lo stato ha un compito primario di indirizzo e coordinamento con poteri mai visti fino a ora all’opera, almeno nel ciclo apertosi con la affermazione del liberismo capitalista sul socialismo e sul welfare statico delle vecchie socialdemocrazie europee.

 

Draghi ci prova, ha le qualità tecniche e politiche necessarie, ma una maggioranza di unità nazionale nelle presenti circostanze ha una severa controindicazione. Federa interessi contrapposti, ideologie antitetiche, politiche incoerenti tra loro, e consente un gioco di scarto e un ruolo di mosca cocchiera che un leader sopra tutto, Salvini ovvero l’Infiltrato, è in grado di sfruttare con un certo successo. L’azione del governo, in una legislatura caratterizzata dalla crisi finale del partito di maggioranza relativa, da una certa inconcludenza disciplinata e draghista del Pd, da una destra metà dentro e metà fuori in ogni senso, rischia di risentire di queste fatali contraddizioni. Draghi ha ancora l’abbrivo o abbrivio per poter mettere in cantiere la formulazione legislativa, forse per decreto come precisamente chiedeva allora la lettera della Bce, un progetto integrale di trasformazione al quale era allora legato l’acquisto decisivo di bond italiani da parte di Francoforte e oggi lo sviluppo del debito comune nella forma di finanziamenti e di grant da parte di Bruxelles. Ma non ha alcuna possibilità di controllare l’esecuzione e il radicamento e la conformità del piano ai tempi del Next Generation Eu nell’ambito di questa formula di governo, con questi uomini, questi partiti e queste correnti di fondo nella politica romana e regionale, sebbene l’attenuarsi della paura epidemica definisca un nuovo orizzonte di apparente fiducia nel paese.

 

Dovrà obbligatoriamente trasferirsi al Quirinale dopo Mattarella, avendo definito per la prima volta, anche se non si candidi e attenda il procedere degli eventi, un programma settennale che coincide con i tempi delle grandi riforme necessarie e della grande spesa a disposizione? E’ l’unica domanda che conta, implica le elezioni e una non impossibile definizione di una maggioranza di destra non acutamente sovranista, corretta dal suo neoeuropeismo più o meno autentico, e di una opposizione di centrosinistra europeista che dall’alto, attraverso un’azione superpolitica, un uomo di stato speciale come Draghi può fornire con maggior costrutto, forse, che non quello derivante dalla diretta responsabilità di un esecutivo degli antagonismi.

 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.