Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica (Ansa)

La Transizione

Evviva Cingolani, che su Ilva fa l'opposto di quello che sognava Grillo

Annarita Digiorgio

Gli ambientalisti alle vongole parlavano di acciaio verde (che non vuol dire nulla). La svolta di Draghi. Indagine

“Hard to abate”. C’è tutto Roberto Cingolani, in questa espressione. È il capitolo del Pnrr dedicato all’Ilva di Taranto che, anche se non viene espressamente citata, gli addetti ai lavori riconoscono in quella definizione in cui vi è tutto l’approccio scientifico e politico del ministro della Transizione. Perché è proprio alla Transizione che fa riferimento Cingolani quando per Ilva, più di qualunque altro settore, indica un processo di modernizzazione che è lungo, articolato e complesso, non di spegnimento e riaccensione, ma di transizione appunto: “Non possiamo chiudere e mettere per strada migliaia di lavoratori, ma neanche possiamo pensare che lo stato possa intervenire su tutto. Transizione – ha detto Cingolani – vuol dire garantire un compromesso tra ambiente e sostenibilità sociale. Io domani non mi sveglio e cambio le tecnologie di un’impresa. Non si può pensare di cambiare l’Ilva dall’oggi al domani. La transizione – ha proseguito – è digitale, cioè non è istantanea. Bisogna predisporre un intero settore. Poi questo presuppone, in futuro, il passaggio all’idrogeno. A tutti piace quello verde che si ricava con tecnologie rinnovabili che non producono anidride carbonica ma ci vuole un po’ di tempo. L’obiettivo deve essere quindi quello di far arrivare l’idrogeno a un costo congruo, affinché possa entrare nel ciclo produttivo dei comparti industriali ‘hard-to-abate’, come quello siderurgico. Inizialmente in questo tipo di ciclo verrà utilizzato il metano, ma il cambio di paradigma apre la strada all’idrogeno, che deve essere l’obiettivo finale per ridurre le emissioni del processo”. 

 

Nel giro di un paio di mesi grazie a Cingolani siamo passati dal blabla “dell’acciaio green”, definizione che non vuol dire niente, usata come passe-partout nei governi Conte, proprio per non dire niente, al più pragmatico “Hard-to-abate”, ovvero quei settori – è scritto nel Pnrr – caratterizzati da un’alta intensità energetica e privi di opzioni di elettrificazione scalabili. Parliamo dei prodotti chimici e della raffinazione del petrolio, nonché acciaio, cemento, vetro e carta. Un ciclo dell’acciaio basato sulla produzione di Dri con metano e fusione in un forno elettrico genera circa il 30 per cento in meno di emissioni di CO2 rispetto al ciclo integrale, e il successivo sviluppo con idrogeno verde aumenta l’abbattimento delle emissioni a circa il 90 per cento. Essendo l’Italia uno dei più grandi produttori di acciaio (stiamo citando alla lettera le parole del Pnrr), in Europa secondo solo alla Germania, questo intervento mira quindi anche alla progressiva decarbonizzazione del processo produttivo dell’acciaio attraverso il crescente utilizzo dell’idrogeno, tenendo conto delle specificità dell’industria siderurgica italiana.

 

La transizione verso l’idrogeno sarà graduale e distribuita nel tempo con l’obiettivo di sviluppare competenze e nuove tecnologie in modo competitivo. Per farlo il Piano dedica solo a questo 2 miliardi. Non a caso è iniziata la gara delle grandi major nella presentazione di rivoluzionari progetti proprio su Taranto: prima Tecnimont con Eni, per realizzare nella raffineria sulla 106 una produzione di idrogeno ricavata da rifiuti di plastica non riciclabile; quindi Enel per la valle dell’idrogeno; poi Enea col progetto Sirio per la cattura della CO2; infine la vera sfida per la riconversione elettrica del siderurgico, con da una parte Danieli, Saipem e Leonardo, dall’altra Fincantieri, ArcelorMittal e Paul Wurt. A questi, ci permettiamo di dare un’idea, manca solo A2a che potrebbe proporre un impianto di teleriscaldamento come fatto anni fa a Brescia, ricavando il calore per tutti gli appartamenti dal termovalorizzatore.

 

Alla fine la riconversione avverrà, immaginiamo, con un bando di gara, nel quale potranno sfidarsi i progetti più concreti e realizzabili. Tutto questo sarà possibile perché dal parco giochi sull’altoforno profetizzato dai Cinque stelle siamo passati alla concretezza della transizione, ben lontana da quella fantasticata da Grillo nel famoso video in cui, proprio con la nascita di quel ministero, annunciava l’apertura al governo Draghi. E a realizzarla non poteva esserci persona più indicata di Cingolani: “Non esistono pasti caldi”, ha detto il ministro riferendosi proprio al dover autorizzare procedure e strumenti spesso avversati da ambientalisti intransigenti o politici locali. “La sindrome del no a tutto deve finire, perché se per esempio oggi diciamo no alle pale eoliche, l’idrogeno verde non arriverà mai. E finché anche l’elettricità si ricava dal carbone, nemmeno le auto elettriche inquinano di meno”. 

 

È il gas dunque la fonte di transizione per eccellenza. Mentre per gli ambientalisti “no-no” neanche quello andrebbe bene (compresa Legambiente completamente contraria alle fonti fossili), e infatti si sono sempre detti contrari a estrarlo dai giacimenti sul nostro territorio. Sulla stessa linea di Cingolani è Carlo Mapelli, professore di Siderurgia, non a caso appena nominato dal governo Draghi membro del cda della nuova Ilva semipubblica, che ora si chiama Acciaierie d’Italia, insieme con Stefano Cao (ex Saipem) e Franco Barnabè. Sul Foglio più volte abbiamo suggerito che al tavolo Ilva il governo mettesse, oltre i soliti esperti di arbitrati che l’hanno governata in tutti questi anni, qualcuno esperto di siderurgia, e finalmente questo cda va in questa direzione. Proprio Mapelli da anni teorizza una riconversione di Ilva a gas. Non solo. 
Nelle sue ultime pubblicazioni, oltre che a una fonte di carbone vegetale, fa riferimento alla cattura della CO2. E anche qui si ritrova in linea col ministro Cingolani. Non tutta la CO2 può essere azzerata. Non in settori “hard-to-abate”, come la siderurgia. Esiste un altro metodo per ridurne l’emissione in atmosfera, anche se non piace ai “no-no”: la cattura. Persino Jode Biden, Bill Gates ed Elon Musk stanno finanziando progetti di ricerca pubblici e privati per la carbon capture. In Italia il progetto più avanzano è quello di Eni a Ravenna, approvato dall’Emilia-Romagna e dal sindaco, che, a differenza anche di molti del Pd, si sono sempre schierati a favore dell’estrazione. Il progetto del Ccs (Carbon Capture and Storage) prevede la cattura di CO2 direttamente dagli impianti industriali e lo stoccaggio all’interno di serbatoi naturali in profondità. Questo consente non solo di eliminare la CO2 dall’atmosfera, ma anche di mantenere elevata la pressione del serbatoio, incrementando quindi l’estrazione di idrocarburi da quei giacimenti in via di esaurimento che altrimenti non avrebbero le condizioni per poter fornire ulteriori metri cubi di gas o petrolio. Tecnicamente parliamo di pura energia circolare, eppure in Italia c’è chi si contrappone anche a questo. Tra questi Milena Gabanelli che ha già tuonato contro l’idrogeno blu (quello che cattura la c02) a suo dire a rischio sismico, quindi ottimo se fatto da Shell e Total in Norvegia dove il governo ha messo 2 miliardi di fondi pubblici per il progetto più innovativo al mondo, ma non se lo fa Eni a Ravenna. 

 

Nel frattempo il commissario Ue Gentiloni sta lavorando a Bruxelles per inserire una carbon tax europea che equipari la CO2 dell’acciaio importato a quello prodotto dalle acciaierie europee, senza la quale alle nostre aziende converrebbe acquistarlo dai paesi che non contribuiscono alla neutralità climatica. Che essendo un processo globale deve coinvolgere tutti, altrimenti le nostre imprese decarbonizzano, ma spariscono dal mercato la cui domanda d’acciaio è in forte risalita. Cingolani l’ha capito: non esistono pasti gratis, e neppure acciaio green. Benvenuta transizione!
 

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