Mario Draghi negli anni Novanta, direttore generale del ministero del Tesoro (R.FRANCESCHIN/LAPRESSE)

Dossier di Draghi sulle partecipate

Storia, peso e destino delle imprese dove lo stato è padrone

Da Romano Prodi a Mario Draghi passando per Giuseppe Guzzetti. Come la finanza cattolica ha guidato la difficile partita delle privatizzazioni

Stefano Cingolani

Enel, Eni, Telecom, Autostrade, Ilva, Alitalia, Poste e tutte le altre. Due modelli a confronto. Circa cinquecento nomine da fare. Il ruolo della Cassa depositi e prestiti

Se amate Friedrich Nietzsche potete chiamarlo l’eterno ritorno, se preferite Francesco de’ Medici allora è meglio il gioco dell’oca, in un caso o nell’altro raramente s’era visto un tale salto indietro, fino a riportare al punto di partenza i pezzi da novanta dell’economia italiana. Dallo stato al mercato e viceversa, non nello stesso modo perché non siamo di fronte a una vera ri-nazionalizzazione né alle partecipazioni statali della Prima Repubblica, ma seguendo un percorso intermedio, simile a quello ispirato da Mario Draghi, mentre ha perso slancio e consenso il modello di Romano Prodi. Sembra un criptico incipit, però la storia è lunga, complessa, squaderna sul tavolo l’intera mappa del potere economico italiano e ha bisogno di trovare una chiave di lettura che faccia senso.

 

Stiamo parlando delle maggiori aziende italiane, quelle che, dopo le banche, dominano il listino di Borsa, occupano più dipendenti, generano più prodotto lordo, macinano più profitti e accumulano, nella maggior parte dei casi, più debiti, oltre a mettere disposizione più poltrone: Enel, Eni, Telecom, Leonardo (già Finmeccanica), Autostrade, Ilva, Alitalia, Terna, Saipem, Poste e tutte le altre.

 

Ma parliamo anche di strategie e soprattutto di uomini: Draghi e Prodi, appunto, o Giuseppe Guzzetti, l’ultimo banchiere di sistema, democristiano, cattolico popolare che ora, a 87 anni, entra nel Pd, perché il partito è guidato da Enrico Letta. Chi avesse la capacità intellettuale e l’energia fisica per scrivere una storia dei poteri forti nell’Italia contemporanea dovrebbe senza dubbio raccontare la resistenza egemonica della cultura cattolico popolare. Altro che liberismo. Altro che Gianni Agnelli. La Fiat non c’è più, la Democrazia cristiana rinasce dalle ceneri.

  

Parliamo di strategie e soprattutto di uomini. Giuseppe Guzzetti, l’ultimo banchiere di sistema, democristiano, che a 87 anni entra nel Pd

  
Che cosa sono il modello Draghi e il modello Prodi? E in quale dei due si ritrova Guzzetti? Quando negli anni Novanta si decise un po’ per scelta un po’ per necessità, di mettere in vendita banche e imprese di stato, le aziende di credito seguirono il percorso tracciato da Giuliano Amato, in veste di presidente del Consiglio e di giurista, e da Draghi come direttore generale del Tesoro. Nacquero le Fondazioni, veri ircocervi le chiamò lo stesso Amato. Ben più complesso fu gestire i gruppi industriali, divisi tra quelli che facevano capo all’Iri e quelli controllati direttamente dal Tesoro. Tra i primi la Telecom Italia, l’Italsider poi Ilva, la Finmeccanica, le Autostrade, e via dicendo. Gli altri avevano come gioielli della corona l’Eni e l’Enel. 

 

Romano Prodi, presidente dell’Iri, voleva utilizzare le privatizzazioni per rafforzare il capitalismo italiano, far nascere nuovi protagonisti

 
Romano Prodi, presidente dell’Iri, voleva utilizzare le privatizzazioni per rafforzare il capitalismo italiano, far nascere nuovi protagonisti, uscire dal circolo chiuso delle grandi famiglie protette dalla Mediobanca di Enrico Cuccia. Per questo, le aziende dovevano essere vendute a imprenditori privati, domestici o forestieri, dotati di capitali sufficienti e di capacità industriale. Le Autostrade ai Benetton, l’acciaio diviso tra Lucchini, Riva, Thyssen Krupp, le telecomunicazioni al “nocciolino duro”. E qui il modello Prodi si arenò contro l’incapacità dei maggiori capitalisti italiani, a cominciare dagli Agnelli, di investire una massa finanziaria in grado di affrontare la rivoluzione digitale. Sappiamo come è andata a finire: la scalata di Roberto Colaninno e dei capitani coraggiosi con Massimo D’Alema; Marco Tronchetti Provera con Silvio Berlusconi; le banche e gli spagnoli di Telefonica con Prodi rientrato nel 2006 a Palazzo Chigi; Vincent Bolloré arrivato non appena insediato il governo Renzi; poi il fondo Elliott e ora la Cassa depositi e prestiti. 

 
Il modello Draghi, invece, prevedeva di collocare sul mercato la maggioranza dei pacchetti azionari, mantenendo però una quota di controllo. Così si è fatto per l’Enel, per l’Eni, o per la Finmeccanica, nonostante facesse capo all’Iri, vista la sua appartenenza al delicatissimo complesso militar-industriale. Lo stesso paradigma s’intende seguire per il rimpatrio neo-statalista, talvolta in modo diretto, ma per lo più usando un filtro antico vestito di nuovo: la Cdp.

 
L’Istat ci dice che sono oltre seimila le società a partecipazione pubblica, comprese quelle che fanno capo agli enti locali, con 847 mila addetti, una media di 134 dipendenti per azienda e un valore aggiunto complessivo che s’avvicina ai 60 miliardi di euro, il 7,5 per cento circa del totale dell’industria e dei servizi. Il 30,7  per cento è costituito da società per azioni con l’83,2  per cento degli addetti totali. Il 60 per cento fa capo direttamente a un’amministrazione pubblica. Il ministero dell’Economia è il datore di lavoro numero uno in termini di occupazione, con il 56,5 per cento, le altre dipendono dai poteri locali: le municipalizzate come venivano chiamate un tempo sono 1.612 aziende con 131.176 addetti.

 

Draghi prevedeva di collocare sul mercato la maggioranza dei pacchetti azionari, mantenendo però una quota di controllo

 
Vendere è stato un buon affare? Sì per il bilancio dello stato. Nel 1991 le imprese pubbliche avevano 810 lire di debiti ogni cento lire di fatturato. Per quelle private il rapporto era di 270 lire. Dal 1980 al 1994 il saldo passivo è di 120.680 miliardi di lire, 62 miliardi di euro o giù di lì. Dal 1992 in poi sono state cedute in tutto o in parte 93 aziende con un incasso pari a 190 miliardi di euro. Il Tesoro ha effettuato direttamente operazioni di privatizzazione per un controvalore di circa 66,6 miliardi di euro. L’Iri ha ceduto per circa 56,4 miliardi di euro.

 
Le imprese gettate “in pasto al mercato” sono rifiorite o si sono rinsecchite? Può darci una idea l’ultimo rapporto Mediobanca R&S, basato sui bilanci del 2019, quindi non influenzato dalla pandemia. L’Enel era il primo gruppo industriale italiano con ricavi pari a 77,4 miliardi di euro seguita dall’Eni. Le Poste occupavano il maggiore numero di dipendenti (oltre 129 mila occupati), poi le Ferrovie dello Stato con 83.764 persone, l’Enel 68.253, Telecom Italia 51.912, Leonardo 49.530. Spettava all’Enel il primato per i debiti finanziari: 62,3 miliardi di euro, in aumento del 9,7 per cento, su Telecom Italia pesavano 32,3 miliardi, (+17,6 per cento); 30,2 miliardi sull’Eni (+16,6 per cento). Il gruppo elettrico in compenso è stato campione di utili nel biennio 2019-2018 con 6 miliardi e 963 milioni, seguito dall’Eni con 4,274 miliardi. Terze le Poste con 2,741 miliardi. Insomma, le aziende a partecipazione statale hanno distaccato tutte le imprese private se si escludono la FCA e la Telecom: la prima è diventata una multinazionale, nella seconda è rientrata la mano pubblica. Le privatizzazioni sono state una svendita ai grandi capitalisti? In realtà sono scomparsi proprio i grandi capitalisti, al contrario di quel che speravano Prodi e molti insieme a lui. 


La rivincita dello stato padrone costa cara ai contribuenti: è bene ricordare i 3,75 miliardi in più per l’Alitalia, il miliardo per l’Ilva (con il Tesoro che avrà il 50 per cento attraverso Invitalia), i 3,6 miliardi per Autostrade, i 10 miliardi circa per il Monte dei Paschi di Siena. I valori azionari delle società partecipate sono scesi a causa della pandemia, ma non erano granché nemmeno prima. Adesso che succede, tornano i boiardi di stato e le spartizioni clientelari? Qui entra in scena il modello Draghi che oggi passa soprattutto attraverso la nuova missione della Cassa depositi e prestiti diventata sempre più evidente con la gestione di Fabrizio Palermo, amministratore delegato, e Giovanni Gorno Tempini presidente, due banchieri dal diverso profilo, il primo perugino cresciuto a Roma, passato per Morgan Stanley, McKinsey e Fincantieri; il secondo bresciano cresciuto a Milano, bocconiano, ufficiale dei carabinieri poi a JP Morgan e Banca Intesa con Giovanni Bazoli per diventare nel 2010 amministratore delegato della Cdp. 

 

La metamorfosi della Cassa in realtà era cominciata nel 2003 grazie a Giulio Tremonti e a Guzzetti, l’arzillo vecchietto come lo ha chiamato Diego Della Valle, che nel 2019, allo scoccare degli 85 anni, salutato con una solenne cerimonia alla Scala, ha lasciato le ultime sue cariche di presidente della Fondazione Cariplo guidata per 22 anni e dell’Associazione delle casse di risparmio. A Paolo Bricco del Sole 24 Ore ha confessato che voleva dedicarsi al welfare di comunità per “sostituire l’attesa di un intervento pubblico che viene calato dall’alto (cioè dallo Stato) che non c’è più e non tornerà più”, con lo spirito della cascina, come quella dove il padre faceva il salame crudo in una atmosfera da “Albero degli zoccoli”. In realtà, la sua vera vocazione è fare il regista, secondo Giancarlo Galli uno dei migliori conoscitori della finanza cattolica. 

  
Guzzetti ha l’aspetto di un professore ottocentesco con la sua barbetta démodée. Schivo e attentissimo alla propria immagine, nessuno lo ha mai colto in fallo: sveglia alle 5, messa alle 6, in ufficio alle 7, vita di provincia, una villa alle porte di Como. Leggere la sua biografia è ripercorrere un altro pezzo del grande ritorno, quello della Italia bianca che si è fusa nell’Italia rossa con l’ambizione di dare un colore nuovo al paese. Il Beppe per gli amici del paese natale (Turate in provincia di Como) si laurea alla Università Cattolica. Profetico l’argomento della tesi: la Cassa depositi e prestiti. Entra nella Democrazia cristiana nel 1953: segretario provinciale, poi regionale, sotto l’ala di Giovanni Marcora chiamato Albertino quando combatteva con i partigiani bianchi in Val d’Ossola. Là incrociò il suo destino con Enrico Mattei ed Eugenio Cefis i quali, diventati signori e padroni dell’Eni, finanziarono la corrente di Base sotto la guida, ovviamente, di Marcora. Era la Dc lombarda, tecnocratica, orientata a sinistra, ma rivale della sinistra sociale torinese di Carlo Donat Cattin. I principali esponenti occuparono tutti posizioni chiave. Guzzetti divenne presidente della Regione dal 1979 al 1987, poi eletto senatore. Da Roma, da palazzo Madama, seguì la implosione della prima repubblica cominciata a Milano con Tangentopoli e cercò di reagire come presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali dalla quale è uscita, tra l’altro, le legge che ha introdotto l’elezione diretta del sindaco. 

 
Nel frattempo, la finanza del nord est era stata ricostruita su basi nuove sotto la regia di un economista trentino, Beniamino Andreatta, già consigliere di Aldo Moro, sostenuto da Carlo Azeglio Ciampi allora governatore della Banca d’Italia. Tutto comincia il 18 giugno 1982 quando Roberto Calvi gran capo del Banco Ambrosiano, la cassaforte della curia, viene trovato a Londra, sotto il ponte di Blackfriars, morto impiccato. Quattro giorni dopo Andreatta, ministro del Tesoro nel governo guidato ancora per poco dal repubblicano Giovanni Spadolini, nomina un commissario. Il 6 agosto nasce il Nuovo Banco e la presidenza è affidata a Giovanni Bazoli, avvocato, esponente di una delle più eminenti famiglie della borghesia cattolica bresciana che ha dato un papa come Giovan Battista Montini, Paolo VI. Con Ludovico Montini, fratello del pontefice, Bazoli condivide lo studio, insieme a loro Mino Martinazzoli, che diventerà il liquidatore ufficiale della Dc nel 1993. Quanto ad Andreatta il suo obiettivo è dar vita a un polo finanziario in concorrenza con Mediobanca. Comincia una espansione che arriva fino alla incorporazione della Banca Cattolica del Veneto e si scontra apertamente con il progetto di Enrico Cuccia: un conglomerato industrial-finanziario tra le Generali, la Commerciale e Gemina la società della Fiat guidata da Cesare Romiti, che avrebbe assorbito anche l’Ambrosiano perché la quota della Popolare di Milano sarebbe passata alle Generali. Vince Bazoli, sostenuto da Ciampi, da Prodi, ma anche da Giulio Andreotti e da Bettino Craxi. Siamo nel 1989 e la sconfitta di Mediobanca apre la strada alla nascita di un gruppo che ingloberà anche la Cariplo e persino la Commerciale, una débacle totale per la finanza laica. La Fondazione Cariplo diventa azionista di riferimento e al vertice viene chiamato nel 1997 proprio Guzzetti.

 
L’alleanza con Bazoli resta ferrea nella gestione della Banca Intesa anche quando la fusione con il Sanpaolo di Torino nel 2007 introduce un nuovo potente socio. Attorno alla coppia si consolida una rete di relazioni. I cattolici che vanno a sinistra, come Prodi, sono punto di riferimento, Silvio Berlusconi è un avversario insidioso come quando nel 2000 cerca di sostenere (senza successo) Bruno Ermolli alla presidenza della Cariplo, o quando nel 2001 presenta una proposta di riforma delle fondazioni secondo la quale la maggioranza dei consiglieri verrebbe nominata dagli enti locali. Il provvedimento è bocciato dalla Corte Costituzionale, tra Guzzetti e l’allora ministro del Tesoro Tremonti la tensione sale al massimo. Ma dal conflitto nasce poco dopo una solida alleanza che trasforma la Cdp. Le fondazioni entrano come azioniste di minoranza con il potere di nominare il presidente (di fatto hanno anche un droit de régard sull’amministratore delegato) e la Cassa esce dal perimetro dello stato alleggerendo il debito pubblico. Questo assetto è sopravvissuto sia all’alternanza tra destra e sinistra, sia al biennio populista. Guzzetti si è fatto sentire pronunciando un netto rifiuto al salvataggio dell’Alitalia (lo statuto impedisce di investire in società in perdita), mentre ha sostenuto il polo delle costruzioni attorno al gruppo Salini. Il giorno dell’oca arriva così alla casella principale.

 
L’ultima trasformazione della Cassa avviene nel 2016 quando il Fondo strategico italiano diventa Cdp Equity e acquisisce dall’Eni della quale è azionista con il 25,9 per cento, una quota di minoranza della Saipem (il 12,5 per cento). Nasce un ménage a trois che serve a liberare liquidità, e comincia il cammino dei campioni nazionali. Un anno dopo la Cdp rileva il 20 per cento delle Bonifiche ferraresi, la maggiore impresa agricola quotata in Borsa, nel 2018 entra in Telecom Italia con il 5 per cento che salirà al 9,9  (è il secondo azionista dopo la Vivendi di Vincent Bolloré e Gorno Tempini entra in consiglio di amministrazione). Poi c’è Webuild, il gruppo di costruzioni che fonde Salini Impregilo e Astaldi sull’orlo del collasso. Nell’autunno scorso arrivano le nozze Sia-Nexi per creare un grande gruppo di transazioni finanziarie. Cdp equity diventa azionista alla pari con la Caisse des dépots et consignations, la cugina francese, di Euronext la società che ha rilevato Borsa Italiana dal London Exchange. E non è certo finita qui. Le prossime puntate si chiamano Autostrade per l’Italia che verrebbero cedute dalla Atlantia dei Benetton e Open Fiber con l’obiettivo di creare una rete unica a banda ultra larga attraverso la fusione con la rete di Tim collocata nella società Fibercop costituita insieme a Fastweb. Le nuove operazioni s’aggiungono così al ricco bouquet già in possesso con i pacchetti di controllo di Eni, Snam, Saipem, Poste, Fincantieri, Terna, Italgas. Tutte insieme hanno realizzato nel 2019 un fatturato di 130 miliardi di euro, impiegando 300 mila dipendenti. 

 

Tre anni fa Fabrizio Palermo venne nominato ad “in quota” Cinque stelle. E’ un tecnico, un manager, non un politico. Sarà confermato o sostituito? 

  

C’è una logica, dicono nel fortilizio romano di via Goito al fianco palazzo Sella, sede del ministero dell’Economia, c’è un percorso che abbraccia le grandi reti infrastrutturali. Resta fuori l’Enel, controllata direttamente dal Tesoro, ma l’obiettivo è muoversi in sintonia strategica, anche se l’azienda elettrica non intende rinunciare alla propria autonomia. La Cdp ha già esteso il campo d’azione al sostegno del capitale nelle medie imprese (con Patrimonio Destinato e una dotazione di 44 miliardi di euro), ma vuole esercitare un ruolo attivo anche nel rilancio e nella riconversione del turismo, un comparto che avrebbe bisogno di un ribaltamento delle sue priorità, dopo la sbornia dei bed & breakfast, e che dipende strettamente dallo sviluppo delle infrastrutture (digitale, ferrovie, aeroporti, autostrade). Da Cdp pigliatutto a Cdp tuttofare? Il rischio esiste, tocca a Mario Draghi indicare la rotta e scegliere il pilota. Tre anni fa Fabrizio Palermo venne nominato amministratore delegato “in quota”, come si dice, Cinque stelle. E’ un tecnico, un manager, non un politico, ma così funziona l’immarcescibile manuale Cencelli. Sarà confermato o sostituito? La sua posizione oggi è la più strategica nell’intero arcipelago delle partecipazioni statali. Deciderà il governo, formalmente Daniele Franco, ministro dell’Economia, che rappresenta l’88 per cento del capitale della Cdp. Ma sarà difficile scegliere contro le fondazioni le quali hanno riconfermato la loro fiducia nel presidente Gorno Tempini.

 
Nel nuovo giro di poltrone avrà senza dubbio un ruolo Enrico Letta che porta in dote un’ampia rete di relazioni e l’eredità dell’Arel, il pensatoio fondato da Andreatta. Importante è la posizione di Giancarlo Giorgetti, ministro dello sviluppo e plenipotenziario della Lega in economia (tra l’altro è cugino del banchiere Massimo Ponzellini l’allievo di Prodi folgorato da Bossi), il quale ha mantenuto nelle sue mani le carte per la rete a banda larga nonostante spetti a Vittorio Colao la transizione digitale. Giorgetti, tra l’altro, ha da tempo un buon rapporto con Guzzetti. Quanto ai Cinque stelle, sarà ancora Di Maio a incrociare i ferri con i colleghi di governo, per difendere Palermo e Gianfranco Battisti che guida le Ferrovie dello Stato, la più grande stazione appaltante d’Italia: controlla anche l’Anas e proprio le strade insieme alle ferrovie assorbiranno una gran fetta del fondo per la ripresa. Quella del capo treno, dunque, è una delle tessere principali tra le 510 che attendono di essere ricollocate il prossimo mese. Draghi vuole premiare la competenza e ha rilanciato i cacciatori di teste; per più di un decennio ha partecipato alla riffa delle nomine pubbliche in Italia, conosce bene come vanno le cose.

  

Nel nuovo giro di poltrone avrà senza dubbio un ruolo Enrico Letta che porta in dote un’ampia rete di relazioni e l’eredità dell’Arel

 
Durante la pandemia, la gerarchia non è cambiata. Rimane in testa l’Enel che, nonostante la concorrenza, può comunque contare sul flusso delle bollette elettriche. In borsa ha fatto un balzo da 5,72 a 8,24 euro per azione e capitalizza quasi 84 miliardi di euro. Il capo azienda Starace è saldo in sella. L’Eni è sotto una spessa lente. Il Covid 19 ha colpito duro, i ricavi si sono ridotti del 37% nel 2020 e i conti hanno chiuso in rosso (742 milioni di euro). Il titolo è rimasto a lungo tra i 13 e i 15 euro, è precipitato sotto i 7 euro un anno fa ora è attorno a quota 10 con una capitalizzazione vicina ai 37 miliardi di euro. L’amministratore delegato Claudio Descalzi non è in scadenza e alla fine è stato assolto nel processo per una tangente pagata in Nigeria insieme alla Shell. Leonardo ha viaggiato sull’ottovolante, in picchiata fino a 4 euro nell’ottobre scorso è risalito a 7,81 euro. La sua capitalizzazione è appena 4,5 miliardi, poco per sostenere un settore strategico come difesa e alta tecnologia. Nessuna delle altre aziende nel perimetro dello stato è grande abbastanza rispetto ai principali concorrenti stranieri. I capitali pubblici sono pazienti, come sostiene Palermo, non sappiamo quanto pazienti siano gli altri capitali che detengono la maggioranza delle azioni quotate. Il settore energetico è sulla linea del fuoco, lo sono soprattutto le aziende produttrici di petrolio e gas, perché la loro metamorfosi sarà lunga, faticosa, costosa. Un antipasto è arrivato dagli Usa dove ExxonMobil e Chevron hanno trattato una fusione da 350 miliardi di dollari che avrebbe ricreato il colosso fondato da John Rockefeller frantumato in 34 pezzi da una delle più clamorose decisioni dell’antitrust americano nel 1911. Il negoziato è saltato per l’opposizione di alcuni fondi di investimento, la partita però non è chiusa. Il nocciolo dello stato è duro, ma non abbastanza; è un presidio non una diga. Basteranno espedienti tipo golden power, cioè il diritto di veto del governo nei settori considerati strategici? Oppure i campioni nazionali non dovranno diventare al più presto campioni internazionali, magari europei? Chiudersi a riccio è impossibile, la via maestra è l’espansione. Come, dove, con chi? Sono le domande alle quali dovrà rispondere Draghi e anche il suo modello sarà messo alla prova.