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Chi ha alimentato la gogna mediatica contro Descalzi e l'Eni

Annalisa Chirico

Il processo sul caso Opl 245 è terminato con una chiaro “il fatto non sussiste”. La tangente non è mai esistita se non nei racconti travaglieschi e di chi ha elevato la cultura del sospetto a genere giornalistico

Ultimamente Marco Travaglio non le azzecca proprio tutte. Gli capita di decantare le magnifiche sorti e progressive del governo Conte amatissimo, seconda versione, ma Conte cade, anzi si sgretola, si sfracella, in terra resta soltanto la polvere. Sempre Travaglio auspica una condanna esemplare contro la “più grande mazzetta nella storia d’Italia” ma Eni e il suo ad Claudio Descalzi escono indenni dal processo. Assolti.

Il direttore del Fatto quotidiano, con stuolo di emuli al séguito, ha contrastato tenacemente l’attuale numero uno del cane a sei zampe, quasi quanto Matteo Renzi, per darvi un’idea della magnitudine di ostilità accumulata negli anni contro il manager accusato, dalla procura di Milano, di corruzione internazionale. Nell’aprile dello scorso anno, quando era in ballo la riconferma di Descalzi al timone dell’azienda, il direttore del FQ elencava ai lettori e al suo adoratissimo Conte i “cinque motivi” che avrebbero dovuto portare al licenziamento del manager: il primo in cima alla lista era l’imputazione ambrosiana di corruzione internazionale per il valore di un miliardo e novantadue milioni di dollari. Tanti soldi, non c’è che dire, peccato che le cose siano andate diversamente: il collegio, presieduto da Marco Tremolada con i giudici Mauro Gallina e Alberto Carboni, ha scritto nero su bianco che “il fatto non sussiste”, la tangente non è mai esistita se non nei racconti travaglieschi, nelle “circostanze suggestive”, come le ha definite l’avvocato di Descalzi, Paola Severino, che “non hanno neanche il rango di indizio”.

 

Nel caso Nigeria non mancano le prove: mancano gli indizi e abbondano i sospetti. Di cultura del sospetto è intrisa la gogna mediatica che in questi anni, a tamburi battenti, ha inchiodato Descalzi nel ruolo di tangentaro in una spy story costellata di manager, faccendieri internazionali, agenti segreti e politici rampanti tra Milano, Londra, Abuja, Beirut e Lugano.

All’indomani della cocente sconfitta, Travaglio tace e tocca a Gianni Barbacetto, sulle colonne del FQ, spiegare che “la storia, uscita dalle aule di giustizia, potrebbe ora diventare un grande film con George Clooney” mentre le Ong, firmatarie, nel 2013, dell’esposto sul caso Opl 245, confidano nel “probabile processo d’appello” per ribaltare il verdetto indigesto. I danni reputazionali per i professionisti coinvolti, da Descalzi a Paolo Scaroni, per non parlare dell’immagine internazionale del colosso italiano dell’energia, passano in secondo piano, come se l’onorabilità delle persone fosse un orpello ornamentale, un dipiù, anzi un di niente se paragonato al cosiddetto “diritto di cronaca”, all’insopprimibile esigenza di versare fiumi d’inchiostro su una vicenda che meritava ben altro trattamento. E che dire dell’investimento di circa 2,5 miliardi di dollari da parte di Eni e Shell che, a distanza di dieci anni, anche a causa dell’inchiesta, ha subìto un pesante rallentamento, neanche una goccia di petrolio ad oggi estratta. Non che i casi giudiziari non vadano propalati al pubblico, per carità, l’informazione è un diritto e un dovere ma la questione è il quomodo, le modalità.

 

Il giornalismo “da riporto”, che si traduce nella pedissequa trasposizione degli atti della pubblica accusa, può forse chiamarsi giornalismo? I servizi televisivi smaccatamente sdraiati sulle tesi della procura, senza riguardo alcuno per le ragioni e le garanzie della difesa, sono forse giornalismo? Questo modo di “fare informazione” somiglia piuttosto a un modo di “fare giustizia”. E’ giustizialismo, con altri mezzi. Un atteggiamento mentale e professionale in armonia con lo zeitgeist ma profondamente irresponsabile perché non tiene conto delle conseguenze irreversibili sul piano della reputazione, delle ripercussioni personali ed economiche. C’è gente che si è tolta la vita, come sanno bene dalle parti di via Freguglia. “Possiamo solo essere contenti del fatto che l’azienda abbia i vertici immacolati. Noi abbiamo fatto il nostro”, il commento gelido di Sigfrido Ranucci, conduttore di Report, il programma Rai che, a spese dei contribuenti, ha dedicato molteplici puntate ai presunti affari loschi di Eni, un player strategico per la sicurezza nazionale che, con tremila dipendenti, ricavi annuali intorno ai 70 miliardi di euro e un centinaio di società in giro per il mondo, rappresenta un fiore all’occhiello targato Italia. Un orgoglio italiano. Neanche un cinguettio, su Twitter, da parte di Stefano Feltri che, da vicedirettore del FQ, è stato implacabile alfiere del castello accusatorio e gran tessitore della trama che, con Conte e i 5 Stelle in testa, avrebbe dovuto defenestrare il commander-in-chief Descalzi. “Non potete confermare Descalzi all’Eni, non ci provate nemmeno, cari Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Sergio Mattarella – vergava l’indomito Feltri – Certe cose non si fanno in silenzio, come fosse tutto ovvio e lineare: se volete riconfermare Descalzi dovete spiegare agli italiani perché volete alla guida della più strategica azienda italiana un manager imputato per corruzione internazionale”. Sfuggiva evidentemente al giornalista che imputato non vuol dire condannato, la presunzione d’innocenza è un principio costituzionale e le sentenze le emettono i tribunali, non i gazzettieri delle procure. Descalzi, si diceva, è stato assolto anche se il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, che su Eni indaga dal lontano 1993, aveva chiesto per lui otto anni di galera. Certe ossessioni non guariscono mai, neanche dopo ripetute assoluzioni, e sollevano invece qualche quesito sul grado di “autonomia” di cui godono certi magistrati che sembrano orientare le proprie scelte investigative e operative in regime di totale discrezionalità, ai limiti dell’arbitrio, senza alcun vincolo di risultato. Fanno come vogliono e non rispondono a nessuno. Probabilmente rispondono alle richieste di certi giornalisti che, dalle parti della procura, possono contare su fonti privilegiate, di prima mano, al punto di  pubblicare atti riservati  prima ancora che siano resi noti all’accusato, per non dire delle requisitorie che dalle aule tribunalizie si riversano, pari pari, nei programmi tv in prima serata.

Il matrimonio tra certe carriere giornalistiche e giudiziarie è problema antico che precede il caso Eni-Nigeria, una patologia particolarmente perniciosa che ha contaminato gran parte del giornalismo d’inchiesta italiano, ridotto ormai a copia e incolla di una sola parte, l’accusa. Come se l’ipotesi del pm non fosse, appunto, un’ipotesi. Serve a poco dunque prendersela con gli irriducibili del FQ quando pure i giornaloni nazionali più autorevoli e seri cedono alla tentazione del processo preventivo, con mezzi analoghi ed effetti persino peggiori. Sulla “supertangente” che non è mai esistita, lo dicono i giudici, Milena Gabanelli, sulle pagine del Corsera, ha distillato accuse come fossero verità intangibili, con la sicumera di chi sa perché sa. Un attacco imponente a pochi giorni dalla pronuncia del tribunale che ha poi assolto mostrando una rara indipendenza rispetto alle sirene mediatiche. Lo “specchio olandese”, secondo la metafora evocata, in un afflato artistico, dall’infaticabile pm De Pasquale, dovremmo porlo davanti ai nostri volti: com’è accaduto che abbiamo smesso di credere in noi stessi? Da quale momento esatto della nostra storia collettiva abbiamo smesso di difendere i campioni industriali di cui andare orgogliosi?  Soltanto una visione deformata trasforma manager capaci in nemici da abbattere e mascariatori di professione in paladini della libertà. Viva l’Italia, viva chi fa.

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