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Perché il Recovery di Draghi è anche un capolavoro neoliberista

Claudio Cerasa

Mettere freni allo stato depoliticizzando l’economia. Il Pnrr da sogno è uno schiaffo al populismo 

L’elemento politicamente più interessante e forse potenzialmente più divisivo presente all’interno del Piano nazionale di ripresa e resilienza – che il Foglio ha anticipato giovedì e che nel pomeriggio di venerdì è stato inviato dal presidente del Consiglio a tutti i ministri del governo – coincide con un filo conduttore che si indovina dopo aver spulciato le 740 mila battute del progetto destinato a riscrivere la storia dell’Italia nei prossimi sei anni.

 

Quel filo conduttore non ha a che fare con una specifica riforma bensì con una precisa visione del paese che nasconde un tratto del Draghi-pensiero che probabilmente avrà fatto soffrire alcuni degli azionisti di questo governo. Il Pnrr di Draghi non ha le sembianze di un cavallo di Troia costruito con l’idea di usare i miliardi che arriveranno dall’Europa per aumentare ancora di più il peso dello stato nella nostra economia, come sperava qualcuno, ma ha le sembianze di una rivoluzione culturale finalizzata a curare l’Italia con una medicina che negli ultimi anni è stata spesso presentata dalla politica come se fosse un veleno: il neoliberismo.

 

Non si può dire che il Pnrr sia un manifesto del neoliberismo ma si può invece dire che il piano sia un tentativo unico nella storia recente del nostro paese di usare i soldi della spesa pubblica per diluire e non per aumentare il peso dello stato nell’economia. Succede così che la concorrenza non sia più un nemico da combattere per proteggere i piccoli commercianti ma sia invece un alleato da coccolare per permettere ai cittadini di avere mercati più forti e capaci di offrire servizi migliori a prezzi più bassi. Succede così che la giustizia non sia più un terreno da regolare solo per aumentare la capacità delle procure di poter vigilare sulle vite degli altri ma sia invece un soggetto da rivoluzionare nell’ottica di vigilare sull’operato dei magistrati (la colpa dei processi lunghi non è degli avvocati e il Pnrr afferma di considerare una priorità il “definire gli obiettivi di rendimento dell’ufficio” giudiziario) e nell’ottica di creare nuove opportunità nell’economia (una giustizia efficiente “accelera l’uscita dal mercato delle realtà non più produttive e la ristrutturazione di quelle in temporanea difficoltà incentivando gli investimenti, soprattutto in attività innovative e rischiose e quindi più difficili da tutelare e promuovendo la scelta di soluzioni organizzative più efficienti”). Succede così che la produttività (che compare per 49 volte nel Pnrr, mentre per 42 volte compare la parola concorrenza) non sia più considerata come una parola oscena utilizzata dai padroni brutti e cattivi per chiedere ai dipendenti di lavorare di più ma sia considerata al contrario come la vera chiave per capire le ragioni della bassa crescita italiana (“Negli ultimi vent’anni – scrive Mario Draghi nell’introduzione  – il pil per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e Germania è aumentato rispettivamente del 21,2 e del 21,3 per cento”).

 

Succede così, infine, che l’obiettivo di avere un paese più snello, con minori oneri burocratici e maggiori deroghe ad alcune leggi ingessate, non venga considerato come un tema accessorio ma venga considerato come il cuore vero di un profondo j’accuse mosso da Draghi alle inefficienze dello stato italiano. Inefficienze a causa delle quali soffre la crescita italiana, aumenta la correzione e diminuisce la produttività (“Le riforme previste dal Piano puntano a rimuovere i vincoli che hanno fino ad oggi rallentato la realizzazione degli investimenti o ne hanno ridotto la produttività”). Mettere un freno allo stato. Depoliticizzare l’economia. Scommettere sulla globalizzazione. Il libro dei sogni di Draghi – libro che ovviamente dovrà poi confrontarsi con altre partite parallele come quella di Aspi, Ilva, Mps, in cui sarà interessante vedere se lo stato modello Draghi avrà la forza di non essere un peso per il mercato ma per il momento è un libro da sogno – è un atto di accusa contro le radici del populismo italiano. E vedere i populismi di ieri costretti a considerare come una virtù del paese ciò che hanno sempre considerato come un vizio è uno spettacolo per cui vale la pena pagare il biglietto. 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.