Sergio Mattarella (foto LaPresse)

Ecco come il presidente defilato dovrà farsi sempre più interventista

Salvatore Merlo

Mattarella entra nello stesso periodo del settennato in cui Napolitano fece le magie. Il 2020 come il 2011. Tra Conte e Colao

Roma. Sergio Mattarella entra ora in quel periodo del settennato presidenziale durante il quale Giorgio Napolitano, incalzato da una crisi drammatica ma che pure adesso appare assai meno grave della attuale, cominciò a ritessere personalmente i fili e i nodi della politica italiana smarrita, quando cioè il suo stare al Quirinale era fondato su una ben visibile e pignola presenza scenica costruita davanti e dietro le quinte del potere, e si basava su scambi continui, ammonimenti e consigli perentori, studiati sussurri e indicazioni ufficiose ma determinanti. Adesso, a cinque anni dalla sua elezione – lo stesso periodo (era il 2011) in cui anche Napolitano divenne protagonista – il fin qui schivo Mattarella inizia a far capire di non essere affatto quella figura neutra e incolore come il timbro secco sulle carte bollate che qualcuno credeva fosse. Fino a oggi il presidente non ha avuto l’obbligo di tutela che fu la condanna di Napolitano, ma gli eventi stanno precipitando rapidamente, e più si affaccia sul proscenio lo spettro della depressione economica, della disoccupazione diffusa, più la politica si fa debole, litigiosa e balbuziente, più il potere del Quirinale è costretto a crescere e ad allargarsi. E’ stato d’altra parte Mattarella a volere portare a Palazzo Chigi, per adesso solo come consulente per la ricostruzione, Vittorio Colao, il grande manager che qualcuno vorrebbe sostituisse il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli. Ed è sempre il presidente che spinge perché l’esperienza di governo si arricchisca ancora di capacità tecniche precise e a questo punto essenziali. Quando prende una decisione, Mattarella va fino in fondo, come quando nel 1990 si dimise da ministro in polemica con l’approvazione della legge Mammì.

 

 

Lo diceva già Don Chisciotte dei diplomatici della sua epoca: “Nella bocca chiusa non entrano le mosche”. E se in questi anni Mattarella è molto raramente intervenuto, è perché gli equilibri parlamentari e gli accordi tra le forze politiche seguivano delle logiche costituzionalmente corrette in un contesto complessivamente non preoccupante dal punto di vista sociale ed economico, un contesto insomma che esulava dalla diretta responsabilità di un uomo in cui tutto, il tratto, la compostezza, la calma, è istituzionale (persino troppo), proprio come gli abiti che indossa: sempre a tre bottoni, grigio, grigio scuro, nero. Ma ora tutti credono (o sperano) che l’epoca del presidente defilato per scelta sia finita, e che il capo dello stato, lui che per esempio assiste ogni giorno all’assenza di coordinamento politico generale tra governo e regioni, lui che è avvertito del pericolo di gravi sofferenze sociali già nel prossimo mese, lui che ha visto Giuseppe Conte sabotare l’unità nazionale, sempre di più sia spinto a prendere in mano la situazione, come ha d’altra parte già fatto intervenendo in maniera decisiva per sbloccare l’assetto manageriale delle aziende a partecipazione pubblica, lì dove il governo traccheggiava, rimandava, annacquava senza nemmeno convocare le assemblee, gettando così in uno stato di grave incertezza aziende importantissime e quotate in Borsa come Eni, Enel e Leonardo.

 

 

Le previsioni descrivono un aumento dell’indebitamento italiano che potrebbe portare il rapporto tra prodotto interno lordo e debito pubblico verso cifre spaventose: 150, 170 per cento. E già entro un mese, se davvero ai primi di maggio si ricomincerà a uscire di casa, sarà sotto gli occhi di tutti, ancora prima che negli indicatori economici, che moltissime persone non saranno tornate al lavoro perché l’hanno perso, perché quelle attività non riaprono e forse non riapriranno mai più. Solo un poderoso rimbalzo in positivo dell’economia e della capacità produttiva del paese può, in scenari di questo tipo, rendere sostenibile il debito pubblico e allontanare ogni tragica ipotesi di ristrutturazione contabile, con tutte le conseguenze sociali facilmente immaginabili, o di default. Ma chi, quale governo, quali figure sono in grado di immaginare un meccanismo ambizioso ed efficace che liberi la capacità di crescita dell’industria italiana? Il ministro grillino dello Sviluppo, Patuanelli? Ed è possibile immaginare un governo che amministra il paese, e le gravi tensioni sociali previste anche dal Viminale, mentre è in rotta totale con le opposizioni? La risposta che si danno tutti nel Palazzo è: no. E lo sa anche Mattarella, che potrebbe farsi motore di un’operazione politica e istituzionale, come Napolitano con Monti e poi con Enrico Letta. Prima che sia tardi.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.