La scienza dice il vero e il falso. La politica è un'altra cosa, vero Machiavelli?

Alfonso Berardinelli

Disinformazione e democrazia, un libro di Mauro Donato

Per quello che posso capire e immaginare (in queste cose l’immaginazione aiuta) mi è sembrata un po’ irenica la visione del rapporto tra scienza e politica proposta dal professor Mauro Dorato nel suo libro Disinformazione scientifica e democrazia (Raffaello Cortina editore, 163 pp., 16 euro). Schematicamente, il quadro delineato è questo: da un lato c’è una democrazia che spesso funziona male e quindi se ne dubita; dall’altro ci sono le fake news, l’incompetenza e le fandonie che circolano in rete in quantità incontrollata e fanno temere che i cittadini, in quanto “popolo sovrano” ed elettori, non sappiano e non capiscano abbastanza, cosa che offusca la realtà di quel bell’ideale che chiamiamo democrazia. Nell’affrontare il problema del rapporto fra saperi scientificamente fondati e buona democrazia, mi sembra che l’autore pecchi di metodologismo. Secondo la sua tesi, la scienza procede e fa progressi seguendo modalità di ricerca e di verifica della conoscenza che offrirebbero un modello da seguire ai processi decisionali della democrazia. Cioè in politica non si può decidere bene (mantenendo sana la democrazia) se non si conosce bene (secondo i metodi della ricerca scientifica).

 

Ho definito un po’ irenica, cioè ottimistica perché schematica, la visione di Dorato. Nel suo schema infatti quello che manca è la politica, la più tumultuosa, impura, ambivalente, imprevedibile delle attività. In essa il sapere fondato su criteri scientifici non è frequente. Chi fa politica tiene poco conto di ciò che è scientifico, e solo se gli serve in quel tipo di retorica competitiva nella quale sembra d’obbligo denigrare sempre l’avversario e lodare sempre se stessi per quello che si è fatto e si promette di fare. L’onestà e l’etica del politico non sono omologhe, non somigliano all’onestà del ricercatore scientifico. Tanto è vero che coloro che studiano “scienza della politica” trovano fondamentale l’iniziativa di Machiavelli che cinque secoli fa decise di considerare la politica qualcosa di distinto, se non di opposto, in linea di principio, rispetto alla morale. Quanto a teoria politica, perciò, la scoperta moderna sarebbe stata l’“autonomia” dell’agire politico, che ragiona in termini di efficacia o inefficacia pratica, senza curarsi della distinzione morale fra bene e male, vero e falso; distinzione che il politico ha sempre sentito come “impropria”, come una inutile e ingombrante zavorra da cui liberarsi.

Certo, il politico deve fare di tutto per sembrare onesto, credibile, affidabile. Ma è meglio per lui essere creduto affidabile nella conquista e nella conservazione del potere che onestamente dedito alla verità.

 

Dato che insegna Filosofia della scienza, Dorato espone bene le caratteristiche metodologiche della ricerca scientifica con i suoi procedimenti deduttivi (tipici della matematica e della logica) e induttivi (tipici delle scienze empiriche). Ci rinfresca le idee e ci aiuta a precisare le nostre conoscenze a proposito di pensatori logico-matematici come Bertrand Russell, fisici come Einstein e pragmatisti come Peirce e Dewey. Ma sopratutto ci invita a diffidare del “relativismo epistemologico” a cui può indurre Kuhn con il suo famoso libro sulla struttura della rivoluzioni scientifiche (che nega continuità alla storia della scienza) e a evitare gli eccessi creativi a cui si è abbandonato Feyerabend, con la sua “teoria anarchica della conoscenza”.

 

Il relativismo conoscitivo, secondo Dorato, in democrazia sarebbe pericoloso perché tende a minare la fiducia che i cittadini devono avere nell’obiettività della scienza. Guai perciò a diffondere l’idea che la scienza può avere in sé qualcosa di soggettivo, di temporaneo, e può essere asservita a interessi economici e politici. L’anarchico Feyerabend non solo scrisse “contro il metodo” (la cosa che invece sta più a cuore a chi fa scienza e ne vuole conservare l’autorità pubblica), ma attaccò frontalmente gli scienziati affermando che “sono ormai diventati i sacerdoti di una nuova fede intollerante verso le visioni alternative del mondo”.

 

Ecco ricomparire le visioni del mondo, dette anche ideologie, o prospettive e idee a proposito di un futuro che dovrebbe essere migliore del presente. Il secolo scorso ha mostrato a sufficienza che le ideologie tendono a trasformarsi in un genere particolare e profano di religione, risultando impermeabili a qualunque obiezione e prova contraria. Ma la politica è un veicolo pragmatico che in qualche misura si alimenta a visioni del mondo, a ideologie, o convinzioni cariche di emotività, che diventano “una specie di fede” anche se momentanea. La politica è sempre e anzitutto, prima che capacità di governo, lotta e competizione in cui ovviamente si fa di tutto per vincere e il possibile per non perdere.

 

Tutto questo, mi pare, non è molto scientifico ed è ben lontano dai metodi della fisica e della chimica. Senza considerare il fatto che le scienze sociali e umane (psicologia, sociologia, economia, linguistica, antropologia, estetica), quasi le sole politicamente adoperabili, non rispondono a criteri di scientificità paragonabili a quelli delle scienze esatte e naturali. La logica per cui qualcuno vince le elezioni, è molto simile a quella per cui un qualunque libro diventa un bestseller, un qualunque artista fa mostre in tutto il mondo, un indumento come un altro è indossato da tutti e un’espressione verbale, magari scorretta, finisce all’improvviso sulla bocca di chiunque parli. Il contagio sociale dei fenomeni e dei modelli di comportamento è una cosa molto interessante da studiare, ma su cui è difficile fare scienza. Inoltre, quasi mai gli esperti e gli studiosi osano giudicare e contrastare ciò che ha mercato e successo.

 

Da quando le scienze umane, per sembrare più scientifiche imitando male le scienze esatte, ritengono inutili e scorretti perché discutibili il giudizio e la valutazione, da allora tendono a trasformarsi in apologia pseudo scientifica, cioè avalutativa, di tutto ciò che esiste e accade. Purtroppo il libro di Dorato non dedica una pagina a questi inconvenienti. Neppure al fatto, per esempio, che gli economisti sbagliano così spesso le previsioni anche se lavorano usando modelli matematici.

Più che proporsi come modello ideale per la democrazia, credo che la funzione e la responsabilità delle scienze naturali siano altrove. Anzitutto nel definire gli scopi umani della ricerca e nella previsione delle conseguenze probabili che avranno le applicazioni tecnologiche delle scienze. Il primo dovere politico dello scienziato è saper uscire dal suo specialismo. Vorrei tanto che le comunità scientifiche ci proteggessero di più da molte delle applicazioni tecnologiche che le loro scoperte producono.