Il governatore del Veneto, Luca Zaia (Foto LaPresse)

Alla Camera i grillini dicono che Zaia si è dovuto arrendere sull'autonomia

Valerio Valentini

Tutte le acrobazie romane del governatore del Veneto per difendere una riforma che non c’è (e Salvini non ha fretta)

Roma. Voleva mettere il governo centrale di fronte al fatto compiuto, voleva fare pesare il consenso tra la sua gente, la voce del popolo di quella sua piccola patria che gli tributa ogni onore, per aggirare i veti e gli intralci romani e riuscire laddove tutti avevano fallito: l’autonomia del Veneto. E invece, alla fine, Luca Zaia s’è ritrovato impantanato nella palude capitolina, tradito forse dalla sua stessa frenesia, come quelle bestie intrappolate in una rete che tanto più li stringe quanto più loro si dimenano.

 

“Facciamo una cosa diretta, dritti al punto”, s’è raccomandato ieri il governatore, con quella sbrigatività ostentata, mentre solcava i corridoi di Palazzo San Macuto, dove gli è toccato sottoporsi alle domande di deputati e senatori della commissione parlamentare per l’Attuazione del federalismo fiscale. “Basta con le critiche fuori dal tempo e dallo spazio”, ha sentenziato Zaia, costretto a difendere con ogni mezzo quella che lui si ostina a definire “una riforma epocale per il Veneto” e su cui si è ipotecato un bel pezzo del suo futuro politico, e che però ora pare essere messa in discussione da quello che pure dovrebbe essere il governo amico, quello più leghista e par conséquent autonomista di sempre. “Per vent’anni abbiamo imboccato la strada dritta – gli ripete ogni volta Matteo Salvini – e siamo andati a sbattere contro un muro. Ora proviamo a prendere la via più larga, magari arriviamo”. E invece la curva sembra essere infinita, il sentiero autonomista smarrito. “Non si va avanti né indietro”, conferma, sconsolato, lo stesso Giancarlo Giorgetti: il quale sa che, alle orecchie dei veneti, la prima parte della frase inquieta ben più di quanto non rassicuri la seconda – e lo sa anche perché, da settimane, gli tocca ascoltare le lamentele dei colonnelli della vecchia Liga, che hanno scelto un silenzioso ammutinamento, un disimpegno non polemico in vista di una campagna elettorale per le europee da cui vogliono restare fuori.

 

“Per noi l’intesa tra stato e regione è conclusa”, ha insistito ieri Zaia, che da mesi è costretto a spiegare, chiarire. Lui che, da sempre, “malo hic primus quam Romae secundus”, lui che ha rinunciato anche alle lusinghe di Salvini che lo vedeva bene – “Anche per toglierselo di torno”, sussurrano i maligni – come futuro commissario europeo per l’Agricoltura pur di restare nel suo feudo di San Marco, è stato costretto a intrattenere una specie di rapporto espistolare con la senatrice grillina Paola Nugnes, napoletana, fichiana e antiautonomista. E alla fine sbotta, Zaia: “Mi si dice che voglio sfasciare il paese. Ma mica siamo venuti giù con la piena del Piave. La secessione dei ricchi? Ma figuriamoci. Sono discussioni lunari”, si sfoga davanti ai parlamentari.

 

“Sono fraintendimenti che lui stesso ha alimentato”, spiegherà poi Roger De Menech, bellunese del Pd. “Zaia stesso ha fatto approvare una legge dal suo consiglio regionale in cui si parla dei nove decimi di residuo fiscale. Una roba che non esiste affatto nell’intesa. Ora dovrebbe ammetterlo per placare le polemiche, ma se dicesse ai veneti che questa non è la secessione promessa per anni dalla Lega rischierebbe di farsi contestare”. Zaia ci prova a rilanciare: “Il governo faccia uscire dal Cdm l’intesa, e la si incardini subito alle Camere”. Ma è un tono ultimativo che stride col calendario parlamentare, e coi richiami alla cautela fatti non solo da Sergio Mattarella e da Luigi Di Maio, ma perfino da Salvini.

 

E infatti i grillini se la ridono. “Zaia ha sempre un tono molto assertivo”, dice, sorniona, nel cortile di Montecitorio, Angela Ianaro, beneventana. “Ma a ben vedere – prosegue la capogruppo del M5s in commissione per il Federalismo – s’è dovuto arrendere alla centralità del Parlamento”. E in effetti, quando si tratta di suggerire un percorso, Zaia allarga le braccia: “Il governo può fare uscire dal Cdm una pre-intesa, che poi le Camere discutono, con mozioni e raccomandazioni; quindi l’esecutivo acquisisce tutto questo materiale, torna in Cdm e definisce con le regioni ciò che è accoglibile delle discussioni parlamentari, per poi stilare un’intesa definitiva e mandarla al voto”.

 

E basta solo immaginarsela, la polemica che si scatenerebbe in ciascuna delle commissioni chiamate a vagliare i vari aspetti delle 23 competenze richieste dal Veneto, col corollario di contrattazioni parallele e minacce e veti incrociati tra Lega e M5s, per trovarsi a concordare con chi, pure nel Carroccio, comincia a dire che “anche stavolta si arriverà a un nulla di fatto”. Senza contare che poi, a Palazzo Chigi, c’è chi propone di varare dei provvedimenti per definire preliminarmente il percorso, e il calcolo dei costi storici e quello dei fabbisogni standard. “È tutto un allungare il brodo per non arrivare alla cottura finale”, ha sbuffato Zaia. Sapendo che, in realtà, ora, a rischiare di finire sulla graticola è lui.

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