Democratici in piazza del Popolo alla fine di settembre per manifestare contro il governo gialloverde (foto LaPresse)

Romanità de sinistra

Marianna Rizzini

Dal Pci al Pd, da Veltroni a Zingaretti, passando per Rutelli, Bettini, D’Alema. Sezioni, licei, circoli, Rai, tribunali, film. Che cosa lega, al di là di tutto, amici e nemici nella storia della gauche capitolina

C’entra qualcosa, Roma? C’entra eccome, Roma, forse è poco forse è tutto, nella storia che è stata vista e raccontata, in questi giorni, come storia di parziale resurrezione della sinistra via primarie del Pd, domenica 3 marzo, quando Nicola Zingaretti ha vinto su Maurizio Martina e Roberto Giachetti. C’entra molto, la città, in questa storia della sinistra-centrosinistra che a Roma pur sempre deve tornare, come per forza di gravità, e che con Roma deve fare i conti, ché “Roma non perdona”, come dice il titolo del libro sulla Rai d’epoca renziana (ed. Feltrinelli) scritto dal neodirettore di Repubblica Carlo Verdelli – e se nel libro di Verdelli Matteo Renzi il fiorentino è anche in qualche modo carnefice, fuori dal libro Matteo Renzi il fiorentino è anche in qualche modo vittima di una certa romanità della sinistra (rigettato, per così dire – e però dipende dall’occhio di chi guarda, ché oggi in molti gli dicono: potevi non farti rigettare). C’entra Roma a ogni angolo, in questa storia di ricordi e rimandi che corrono tra Walter Veltroni e Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti, passando per Francesco Rutelli e Massimo D’Alema e Paolo Gentiloni e – stessa questione, altra professione – Nanni Moretti e Carlo Verdone (ma c’è anche Sabrina Ferilli, idolo dei romanisti di sinistra e non di sinistra, nonché fan di Virginia Raggi oggi pentita). E ci sono le canzoni, c’è Francesco De Gregori che non vuole i maxiblitz contro i venditori ambulanti (come ha scritto in una lettera al Corriere della Sera nel 2013) perché vìolano la città da lui cantata (“… per i ragazzi che escono dalla scuola / e sognano di fare il politico o l’attore / e guardano il presente senza stupore / e il futuro intanto passa e non perdona / e gira come un ladro / per le strade di Roma). E c’è Antonello Venditti, con “Roma Capoccia” e “Grazie Roma” e tutto il resto (vedi parodie di Corrado Guzzanti) – ma come si fa ora che Venditti è diventato salviniano? E ci sono gli scrittori e i registi, gli artisti e i professori, i tribunali e le piscine, gli avvocati e gli abbronzati, i canottieri e i camerieri, le sezioni e i parrucconi, le piazze e i tavolini, gli auditorium, gli architetti e le porchette (celebre rimase una sorta di sagra della porchetta appena fuori dall’Auditorium veltroniano di Renzo Piano), e ci sono i circoli e Fregene – il tavolo a pranzo la domenica a Fregene. E c’è la Rai, sempre e ancora la Rai, e il confine invisibile tra i due quartieri Prati – “Prati-Prati” e “Prati-Delle Vittorie” – con in mezzo il bar Settembrini (chi c’è-chi va-chi non va) e la dalemiana sezione Mazzini. E c’è piazza Farnese e Campo de’ Fiori e Italianieuropei e la Treccani, il Parlamento e l’Esquilino, l’etnico e il multietnico, e il Tevere con le banchine (ancora si parla delle bancarelle troppo vicine al murales di William Kentridge), e i ristoranti e le osterie: c’è tutto e ci sono tutti ma non necessariamente in quest’ordine, ché ogni elemento si mescola, sparisce e torna, si inabissa e si riaffaccia, in questo girotondo in cui la Romanità con la R maiuscola – intesa come vero e proprio personaggio della commedia (o tragedia, a seconda del momento) – permea la Sinistra con la S maiuscola, come consapevolezza e suggestione.

 

La sinistra che a Roma risorge e s’affossa tra rimandi e ricordi. Un liceo è per sempre, come il tavolo la domenica a Fregene

E si capisce che non può essere tutto merito della cosiddetta “sindrome del Dopoguerra”, come dice un professore, se la Roma di sinistra, dopo i bombardamenti, i rastrellamenti, l’armistizio, la fine del fascismo, la pace, il referendum, le elezioni, il neorealismo, l’ottimismo e il boom si è vista non più terra di conquista, ma terra di reazione. Né può essere tutta colpa della toponomastica che compatta le appartenenze di partito al di là delle correnti, con la sede della Dc accanto a quella del Pci, se chi metteva radici in via delle Botteghe Oscure si sentiva magari nemico di chi da Botteghe Oscure se n’era andato – e però nemico non vuole dire estraneo. E quanto conta, di riflesso, nella sinistra romana, il peso dell’essere “città eterna”, sensazione ben descritta da Dolores Prato nei frammenti raccolti in “Voce fuori coro” (Quodlibet, a cura di Valentina Polci), in cui la scrittrice si lancia in un’invettiva “a contrario”, cioè contro la retorica della Roma risorgimentale e contro il mito urbanistico della Roma post Stato pontificio, come a voler disseminare il dubbio: ma che, quasi quasi, Roma era meglio lasciarla al Papa?

 

E chissà che cosa davvero serve, per dare forma periodica al sogno e incubo della sinistra che riparte da Roma e che a Roma s’affossa: vedi piazza Navona, 2002, con Nanni Moretti che urla contro “i dirigenti” con cui “non vinceremo mai”, e vedi il Circo Massimo, sempre nel 2002, con Sergio Cofferati che, davanti a tre milioni di manifestanti – cosiddetto “popolo della sinistra” – arringa, sul tema dell’articolo 18, una folla che poi non lo seguirà; e vedi ancora, di nuovo al Circo Massimo, Walter Veltroni, il 25 ottobre del 2008, quando, davanti a 2 milioni e mezzo di persone, pronuncia il discorso salutato come “festa della democrazia”, la “prima grande manifestazione di massa del riformismo italiano, finalmente unito”. E però poi si è scoperto che non era unito manco per niente, il riformismo, e non soltanto per la persistente rivalità sotterranea tra veltroniani e dalemiani (correnti dai confini labili, a volte): pochi mesi dopo è stata un’altra piazza, piazza di Pietra, nell’inverno del 2009, a vedere dimissionario lo stesso Veltroni, l’uomo che era stato sindaco per due volte, la prima delle quali con un inizio trionfale, tanta era la folla riversatasi in strada anche in nome della Nemesi: c’era chi, tra i compagni festanti, come dice un compagno allora festante, si ricordava di quando, nel 1994, “non aveva certo festeggiato”, ché, dopo la sconfitta della sinistra alle politiche, l’ascesa di Berlusconi e varie alterne e litigiose vicende, come segretario del Pds era stato eletto Massimo D’Alema (al Consiglio nazionale del partito, con 249 voti contro i 173 di Veltroni, che però era risultato in vantaggio nelle consultazioni della base in precedenza – spaccatura mai sanata negli anni successivi). Fatto sta che a Roma, quando Veltroni fu eletto sindaco, nel 2001, ci fu chi la vide plasticamente rappresentata in piazza, la diarchia: due uomini e due visioni.

 

Il caso Marino, Roma crocevia della crisi, i “due quartieri Prati” e Monteverde – e quelli che non si sentono “Grande Bellezza”

E però intanto, sotto, c’era la comune esperienza. Quanto conta, nella forza e debolezza sotterranea della romanità di sinistra, la comune esperienza? “Massenzio… andavano tutti comunque a Massenzio”, dice uno scrittore, evocando la creatura dell’insuperato demiurgo dell’estate romana Renato Nicolini, assessore alla Cultura in Campidoglio tra il 1976 e il 1985, nelle giunte di Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere. Massenzio, cioè notti di arena e “dibbattito”, cocomero e cineforum, amori e motorini, birra e politica, arte, critica, liti furibonde, tarallucci e vino.

 

Oppure ha avuto più peso la scuola? Ma non nel senso di “scuola cattolica”, come nel libro premio Strega 2016 di Edoardo Albinati (scuola cattolica cioè il San Leone Magno, quartiere Trieste, tutta un’altra storia anche se solo fino a un certo punto, vista la contiguità apparentemente impensabile ma in realtà inscalfibile tra una Roma e l’altra). Scuola intesa come quadrilatero dei licei classici del centro Mamiani-Virgilio-Visconti-Tasso, con estensione allo scientifico Righi: un liceo è per sempre, e anche dopo vent’anni uno che andava al tuo liceo nel quadrilatero, qualsiasi cosa faccia, può essere, ancora una volta, magari un nemico ma mai un estraneo (un ex alunno del Visconti ricorda quando vari esponenti dell’allora Fgci, poi cresciuti non in perfetto allineamento politico, andavano insieme di nascosto a sbirciare nei vecchi registri i voti del celeberrimo ex alunno ed ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti – come a dire: ci conosciamo bene, ci conosciamo tutti). E pazienza se la regola del liceo non vale per l’attuale neosegretario del Pd Nicola Zingaretti, cresciuto alla Magliana e allievo di un istituto odontotecnico: altro lega Zingaretti alla storia della romanità di sinistra, dalla Fgci locale di cui è stato segretario al rapporto con Goffredo Bettini, esponente storico del Pci-Pds-Ds-Pd romano, poi europarlamentare – l’uomo che i retroscena sempre vedevano e vedono come “deus ex machina”, prima nella Roma che deve digerire la svolta di Achille Occhetto (dal Pci al Pds); poi nella Roma dei sindaci Rutelli e Veltroni; infine oggi, nella Roma che fa da sfondo all’ascesa di Zingaretti, rieletto alla regione mentre il Pd crolla alle politiche del 2018, e scelto segretario con più del 60 per cento dei consensi alle primarie del 3 marzo scorso. Questo scriveva di Bettini, nel 1989, su Repubblica, Miriam Mafai, mettendolo nella generazione “dei giovanotti di Via dei Frentani”, celebre sezione tra via dei Volsci e la Sapienza. “Da lì partivano”, scriveva Mafai, “negli anni duri della solidarietà nazionale, i cortei degli autonomi, degli studenti e degli indiani metropolitani che, arrivati sotto le finestre del Pci, gridavano ‘Berlinguer servo dei padroni’ e slogan inneggianti alla P38. Tempi duri, anzi durissimi allora per i comunisti romani. E, in primo luogo per i suoi giovani chiamati ad affrontare, politicamente e fisicamente, per la prima volta, degli avversari che pretendevano essere la vera sinistra. Goffredo Bettini… è uno di quei giovanotti di allora… ha un fisico da lottatore, un occhio strabico, i capelli neri e riccetti del bullo romano di periferia. L’immagine, questa volta, inganna. Bettini viene da una famiglia di professionisti e proprietari, ricchi di cultura e palazzi e terre nelle Marche…”. E, parlando di Bettini, Mafai disegna una mappa di nomi poi ricorrenti: “Ha cominciato a far politica al liceo Righi, nel ’68, ma senza mai aderire ai gruppi. Nel 1970 entra nella Fgci, dove conosce Borgna, Adornato, Veltroni, Antonio Semerari, amicizie alle quali resta fedele. Decisivo, per la sua formazione culturale, l’incontro con Pasolini. Per qualche tempo lavora nella Fgci nazionale allora diretta da Massimo D’Alema…”.

 

I “giovanotti di via dei Frentani”, come li chiamava Miriam Mafai, e la “diarchia” D’Alema-Veltroni

E quanto pesa, invece, nella storia recente della sinistra, il “peccato originale dell’ultima fase”, come lo chiama un dirigente del Pd, la scelta anche precipitosa e poi la defenestrazione del sindaco “marziano” Ignazio Marino, con le accuse incrociate tra correnti e con Matteo Renzi, ex segretario e premier, che dice, “con la cacciata di Marino io non c’entro”? Fatto sta che, negli anni post Mafia Capitale, la sinistra romana s’è trovata a essere epicentro e crocevia della crisi anche nazionale, fino all’elezione (catartica?) di Virginia Raggi e fino al viaggio di ritorno, con la rielezione di Zingaretti alla Regione e la sua vittoria nella corsa per la segreteria. Ma tutt’attorno hanno continuato a muoversi – comprimarie – le abitudini lontane che rendono all’occorrenza meno opposta l’opposta visione interna: basta un amarcord sul volantinaggio a Monteverde Vecchio, il quartiere dove il D’Alema ragazzino fu “pioniere” (membro dell’associazione comunista under 15), anche se poi l’immaginario collettivo ex Pci-Pds-Ds associa l’ex premier e ministro degli Esteri alla sezione Mazzini, dove più avanti si radicò la sua corrente (esponente giovane: Matteo Orfini, poi presidente del Pd in epoca renziana – da cui tutta una leggenda sui “mazziniani” contro i “bettiniani”. E c’è anche il mito del contenimento della “gentrificazione selvaggia”, per esempio al Pigneto, il quartiere di “Roma città aperta” (da cui la retorica sulla gestione delle zone preperiferiche e periferiche). E c’è, al posto del cerchio magico toscano, il cerchio invisibile che potrebbe essere chiamato del “supplì al telefono”, in omaggio alla romanità che non si sdegna quando Zingaretti inciampa sull’italiano (vedi quel “mi hanno imparato” invece di “mi hanno insegnato”, detto forse per distrazione molti anni fa).

 

E i radical chic? Qualcuno giura di averne visti molti, nel 2018, migrare verso gli esuli D’Alema e Bersani ma anche verso il grillismo, per poi tornare indietro vergognosi – da cui “le file ai gazebo all’Esquilino”, come nota malignamente un abitante dell’Esquilino, il quartiere del napoletano premio Oscar Paolo Sorrentino, uomo-bandiera di una sinistra romana in cerca di sublimazione – non a caso non pensa di vedersi allo specchio, la romanità di sinistra, nel parco umano de “La Grande Bellezza”: ma come?, noi come la gente vacua, vanesia e disperata delle feste e delle terrazze e e dei vernissage? Mai e poi mai. E invece (forse) anche un po’ sì. Ma anche questa è un’altra storia. Intanto ci si aggrappa a quel numero: un milione e seicentomila voti, i votanti delle primarie. E si cerca di farselo bastare.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.