La folla al comizio di Salvini a Piazza del Popolo l'otto dicembre (Foto LaPresse)

Come guarire una società piegata

All’Italia manca un’idea unificante e l’unica che potrebbe darla è la politica, impegnata però a giocare a rimpiattino. L'analisi di Sabino Cassese

Professor Sabino Cassese, la società italiana appare piegata, timorosa, scoraggiata. Vogliamo ragionare sulle cause e sui rimedi?

Sentieri impervi. Le analisi sociologiche non aiutano. Il comune sentire non basta. Sarà forse necessario ricorrere alla storia e alle comparazioni. Proviamoci. Cominciando da ciò che questa condizione non è.

Questo solo sappiamo, quello che non siamo, come il poeta?

Forse si potrà andare oltre. Mi segua. I segnali di cui disponiamo e i sondaggi ci dicono che non è una insoddisfazione rivolta allo stato, una rivolta antistatale (anche se la classe dirigente viene continuamente imputata) e che non è solo insofferenza per la crisi economica che colpisce l’Italia da un decennio, e di cui non si vede la fine. C’è qualcosa d’altro, qualcosa di più. I fattori sono molti.

Proviamo a elencarli.

In primo luogo, le incertezze e il disorientamento odierno sono dovuti all’impressione di impotenza rispetto a ciò che viene da fuori: progresso tecnico, crisi economica, immigrazione, apertura dei mercati. Sono tutti elementi che danno l’impressione di non avere più il focolare, le mura di casa, le barriere protettive della comunità di cui si fa parte. Senza enfatizzare, vedo due precedenti storici: quei secoli che si concludono nel settembre dell’anno 476 (un bel libro storico francese descrive quella vicenda: Michel De Jaeghere, Gli ultimi giorni dell’impero romano, Pordenone, Leg Edizioni, 2016) e quel lunghissimo periodo che caratterizza il declino della civiltà musulmana, così bene analizzato da quel grande competente che è Bernard Lewis nel volume che in traduzione italiana ha preso il titolo dall’intitolazione di un capitolo, Le origini della rabbia musulmana (Milano, Mondadori, 2009). In ambedue i casi, sono descritti il disorientamento, l’incertezza, la paura, la rabbia prodotte dalla perdita del controllo delle frontiere, non solo quelle fisiche, dall’invasione, anche quella dei costumi, dalla supremazia assunta da forze esterne in casa propria, dall’indebolimento dell’autorità nazionale.

Lei attribuisce quindi un significato di svolta epocale a quel che sta accadendo, e ne attribuisce le cause a ragioni esterne.

 

Cause-effetti: che ragionamenti primitivi! Non dimentichi la critica di Bertrand Russell al determinismo meccanicistico. Qui si parla di contesti, di una pluralità di azioni. Il contesto nazionale ha il suo peso. E’ in questi anni che le due grandi organizzazioni di massa dell’ultimo cinquantennio cedono. Mi riferisco alla chiesa e ai partiti. Maurizio Molinari, nel suo libro su Perché è successo qui. Viaggio all’origine del populismo italiano che scuote l’Europa (La nave di Teseo, 2018) scrive che in Italia vi sono poco più di 25 mila parrocchie, ma solo quasi 17 mila parroci e che solo il 27,5 per cento degli italiani dichiara di frequentare luoghi di culto una volta alla settimana. Sulla “liquefazione” dei partiti non c’è bisogno di fornire dati.

 

La quasi scomparsa di queste grandi strutture sociali lascia l’individuo solo, preda dei suoi dubbi, in contatto solo con la massa degli interlocutori impersonali assicurati dalla rete, su cui si scaricano, quindi, in forma spesso primitiva, ansie, rancori, critiche. Insomma, l’azione esterna non avrebbe avuto forza disgregatrice se non avesse trovato il campo libero all’interno. Esterno e interno, insieme, producono un effetto simile a quello indagato nel 1930 da José Ortega y Gasset, nel famoso libro sulla ribellione delle masse. C’è ora un nuovo “uomo-massa”.

 

All’interno, c’è, però, qualcosa di più dell’allentamento dei legami religiosi e politici.

 

Sì, ci sono due ulteriori elementi, messi molto bene in luce da uno storico e da un politologo. Questi anni di crisi e di incertezza si sono innestati sulla “democrazia del narcisismo” (Giovanni Orsina, La democrazia del narcisismo. Breve storia dell’antipolitica, Marsilio, 2018). Era maturata l’idea che a tutti spettassero diritti svincolati dalle contingenze storiche e dal rapporto diritti-doveri consacrato dalla costituzione del Termidoro. La stretta economica ha fatto cadere questa aspettativa, con le reazioni che si possono immaginare. L’altro fattore è costituito dal peggioramento della qualità dell’esperienza relazionale degli individui, dalla diminuzione del senso delle possibilità, dalla riduzione dell’impulso a provare, dalla riduzione della capacità di progettare cambiamenti, cioè l’alternativa (su questi aspetti, il bel libro di Stefano Bartolini, Manifesto per la felicità. Come passare dalla società del ben-avere a quella del ben-essere, Donzelli, 2010).

 

Lascia sempre sullo sfondo la situazione economica.

 

Sì, salvo il divario nord-sud, essa rimane sullo sfondo. Marco Fortis, in un documentato articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 2 gennaio scorso, ha dimostrato, con un’analisi anche comparativa, che Italia e Germania sono messe bene. In Italia il 62 per cento della popolazione vive in regioni con un prodotto interno lordo pro capite, a parità di potere di acquisto, superiore alla media dell’Unione europea.

 

Il malessere ha dato luogo al cambio di politiche con l’ultima tornata di elezioni politiche. Se ne darà carico il nuovo governo.

 

Che fa? Provoca? Il nuovo governo non è la soluzione, ma è parte del problema. Infatti, sta accentuando la sensazione di incertezza, perché si vede che il nocchiero non conosce né la nave, né il timone. Forse questa sensazione si è comunicata anche al nocchiero. Questo moltiplica le frasi dirette ad autoassicurarsi, del tipo “i numeri sono con noi” (Di Maio al Corriere della Sera del 2 gennaio, parafrasando “Guerre stellari” “la forza sia con te”). Nello stesso tempo, il nocchiero continua, dopo quasi un anno di governo, a lavorare sulla costruzione retorica della crisi e sulla delegittimazione politica del nemico battuto (anche su questo tipo di esercizio c’è un bel libro storico: P. Macry e L. Masella (a cura di), La delegittimazione politica nell’età contemporanea. 5. La costruzione del nemico in Europa tra Otto e Novecento, Viella, 2018).

 

In questa situazione, che fare?

 

La proposta politico-governativa è di tornare al luogo della sicurezza, la nazione, lo stato, la chiusura delle frontiere, la legittima difesa individuale e collettiva. I filosofi hanno studiato questa reazione, partendo dalla famosa metafora di Lucrezio nel De rerum natura. In traduzione, “Bello, quando sul mare si scontrano i venti / e la cupa vastità delle acque si turba, / guardare da terra il naufragio lontano: / non ti rallegra lo spettacolo dell’altrui rovina, / ma la distanza da una simile sorte”. Filosofi come Hans Blumenberg e Remo Bodei hanno indagato le due reazioni: stare a una distanza di sicurezza, oppure ritornare al luogo della sicurezza.

 

Mi pare che lei non condivida nessuna delle due reazioni.

 

Vede giusto. Non si possono accettare pause (ci fermiamo, mentre gli altri corrono?). Non ci si deve far prendere dallo scoraggiamento, rassegnandoci ad aspettare tempi migliori. Questo per due motivi. Il primo è che l’Italia è sempre più piena di iniziative sociali, “dal basso” si sarebbe detto una volta, di festival, corsi, centri di cultura, scuole di politiche. C’è una società interessata attivamente, ma lenticolare, incapace (per ora) di mettersi in rete, di collegarsi, di dialogare. C’è un fiorire di iniziative dirette a capire e far capire, che direi di acculturazione, dove si manifesta una domanda di conoscenza e di esercizio della ragione, e anche un bisogno di maestri. Il secondo motivo è che noi italiani siamo bravi a prendere l’iniziativa, non a costruire muri alle frontiere, ma a varcarle: pensi soltanto alle migliaia di “cervelli” che vanno all’estero (mentre sono risibili i programmi di rientro, che andrebbero sostituiti con programmi per attrarre stranieri in Italia).

 

Ma basta?

 

Non basta. E l’altro di cui c’è bisogno l’ha lucidamente indicato Emanuele Felice in un articolo sulla Repubblica del 12 dicembre 2018: “Serve un’idea di società”. Sono necessari “grandi ideali”, che suscitino anche “sentimenti di appartenenza”. Insomma, manca la forza di un’idea unificante. Sarebbe compito della politica, che invece, tace, persa dietro giochini a rimpiattino.

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