La demolizione di un'altra villa dei Casamonica. Salvini sale sulla ruspa (foto LaPresse)

Il 2018 ci ha insegnato che la ruspa populista è un guaio per istituzioni e democrazia

Claudio Cerasa

La forza distruttiva del populismo e il suo stile ricattatorio si trovano ben  sintetizzati in una  visione tribale del mondo, in cui gli avversari diventano nemici della nazione. Perché nel 2019 la parola chiave per l’Italia sarà “resipiscenza”

Siamo sicuri che il problema del populismo sia solo l’incapacità? Siamo sicuri che il problema del populismo sia solo l’incompetenza? Qualche settimana fa la casa editrice del Mulino ha dato alle stampe un tomo molto impegnativo contenente i diari scritti da Antonio Maccanico tra il 1985 e il 1989. In quel periodo Maccanico, scomparso a Roma il 23 aprile del 2013, ha vissuto due anni al Quirinale con Francesco Cossiga, un anno alla presidenza di Mediobanca, un anno nel governo con Ciriaco De Mita e nel diario, già recensito sul nostro giornale da Sergio Soave, ci sono molti spunti di riflessione interessanti, anche per chi, come chi scrive, in quegli anni aveva tre anni. Ma tra i tanti spunti ce n’è uno che merita di essere messo a fuoco e che ci spiega bene, attraverso due appunti di Maccanico, la grande differenza tra il populismo degli anni Ottanta e quello di oggi. Il primo appunto è quello che compare sul diario del 29 gennaio 1989. Il secondo appunto è quello che compare sul diario del 27 gennaio 1987. Primo passaggio: “I tre maggiori partiti italiani, Dc, Pci, Psi, hanno invincibili inclinazioni populistiche, anche se nel loro seno hanno personalità e gruppi sensibili alle ragioni del buon governo. Il ruolo dei repubblicani è quello di costruire una barriera di contenimento delle suggestioni populistiche in politica economica, istituzionale e internazionale”.

 

Secondo passaggio. “La giornata comincia con l’incontro, insieme a Berlinguer, con Andreotti per la questione della priorità nella esposizione del consiglio supremo di Difesa. Andreotti cede di buon grado il passo a Spadolini, togliendoci di imbarazzo. La riunione si trascina mestamente con Craxi e Forlani che pensano ad altro. Sono poi a colazione presso Mondadori con Ottone, Formenton, Visentini, De Mita, Cingano, Claudio Rinaldi. Discussione vivacissima tra De Mita e Visentini sul governo Craxi. Alla fine riesco a comunicare a De Mita il messaggio di Spadolini, contrario allo scioglimento anticipato delle camere. Serata a casa di Romilda, con Gregotti, Valentini, Bollati, Arbasino e Forquet”. Ora a voler leggere con superficialità questi due appunti si potrebbe dire con tono mesto, triste e scoraggiato che la grande differenza tra i “populisti” di ieri e quelli di oggi è la qualità delle persone, la storia dei profili, la ricchezza del curriculum, il bagaglio d’esperienza e l’impossibilità un tempo di avere a capo del paese un ministro passato nel giro di pochi anni dal fare lo steward in uno stadio a guidare l’Italia. Ci si potrebbe divertire a lungo sulla differenza tra la classe dirigente di ieri e quella di oggi ma a guardar bene concentrarsi sulla qualità dei nomi di ieri e di quelli di oggi ci porta fuori strada e non ci permette di concentrarci sulla vera radice dei problemi. E il punto in fondo è questo. Il punto è che la principale differenza tra il populismo di ieri e quello di oggi non è da individuare nello stile, nel linguaggio, nel lessico o nelle forme di comunicazione ma è piuttosto da individuare in qualcosa di estremamente più importante che riguarda l’essenza del confronto tra forze le politiche all’interno di un contesto democratico. Nel passato, nella storia della Repubblica italiana, al progressivo indebolimento dei partiti ha sempre corrisposto un tentativo di rafforzamento delle istituzioni. Oggi al progressivo indebolimento dei partiti corrisponde un progressivo tentativo di indebolire anche le istituzioni. Può sembrare un dettaglio di poco conto ma è l’essenza vera del populismo delle tribù di oggi dove il confronto tra forze politiche non è più tra due modi differenti di guardare il mondo ma è tra chi si sente legittimato a rappresentare le istituzioni e chi viene delegittimato a rappresentare le istituzioni. Il populismo sfascista, come ci dimostra la quotidianità della traiettoria sovranista, oggi non si limita a essere semplicemente alternativo alle forze politiche che si trovano alla sua opposizione ma fa qualcosa di più: alimenta una bolla esplosiva all’interno della quale gli unici legittimati a rappresentare le istituzioni – e a essere i garanti del sistema democratico – sono coloro che si sono auto nominati come portavoce del popolo.

 

La forza distruttiva del populismo, la sua pericolosità, il suo stile ricattatorio si trovano prima ancora che nella sua visione del mondo nella sua malata visione della democrazia, all’interno della quale – e questo tic è figlio di un certo modo di fare opposizione negli ultimi anni anche a Berlusconi – gli avversari non sono più soltanto dei nemici del proprio partito ma diventano dei nemici della nazione. E quando lo spin della Casalino Associati lascia intendere che l’Italia non ha i suoi gilet gialli solo perché ci sono avvocati del popolo a Palazzo Chigi, il senso del messaggio veicolato dagli sfascisti è proprio quello che appare: chi è contro i populisti non è solo un nemico di Salvini e Di Maio ma è un nemico del popolo italiano e per questa ragione merita di essere combattuto con tutti i mezzi a disposizione. Davvero, di fronte a questo orrore, si può far finta di niente ed essere ancora terzisti? A voler essere sintetici, dunque, la vera differenza tra i populismi di ieri e quelli di oggi è che dal dopoguerra in poi, per quanto potessero essere diversi i populisti gli uni dagli altri, nessun partito ha mai pensato di fare quello che oggi sono pronti a fare i partiti al governo e cioè arrivare a considerare le istituzioni che governano il nostro paese amiche del popolo solo a condizione che queste facciano ciò che viene considerato giusto dai presunti amici del popolo. E la ragione per cui i partiti populisti considerano gli avversari dei nemici da distruggere e non solo degli avversari da affrontare è stata perfettamente sintetizzata da Barack Obama nell’ultimo discorso da presidente, pronunciato a Chicago il 10 gennaio 2017: “Per troppi di noi è diventato più sicuro ritirarsi nelle proprie bolle, circondati da persone che ci assomigliano e che condividono la nostra medesima visione politica e non sfidano mai le nostre posizioni. E diventiamo progressivamente tanto sicuri nelle nostre bolle, che finiamo con l’accettare solo quelle informazioni, vere o false che siano, che si adattano alle nostre opinioni, invece di basare le nostre opinioni sulle prove che ci sono là fuori”. Un politico che vive in una bolla è un individuo che ha una visione tribale della politica e un politico intrappolato nella sua bolla tribale non potrà che essere portato in modo naturale ad aggredire progressivamente il più importante corpo intermedio che governa ogni paese: non più solo il partito che rappresenta i rivali ma molto più semplicemente la democrazia rappresentativa. E un politico tribale non può essere combattuto solo per quello che fa ma deve essere combattuto per quello che è. Sarà questo il grande tema del 2019. Sarà dura ma la resipiscenza è possibile. E intanto buon anno a tutti.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.