Matteo Salvini (foto LaPresse)

Perché il piano B del governo è il piano A di Salvini

Claudio Cerasa

I rischi dell’Italia sul modello Puigdemont e l’irresponsabile silenzio dei coscienti della Lega

Il punto da chiarire in fondo è molto semplice: in caso di collasso, il modello di navigazione che verrà scelto dal governo italiano sarà più simile a quello adottato in Grecia da Alexis Tsipras o sarà più simile a quello scelto in Catalogna da Carles Puigdemont? La domanda può sembrare prematura, ma a poche settimane dal possibile declassamento che può colpire il nostro paese – e la notizia che il deficit tornerà a calare dal 2020 chissà per quanto tempo potrà calmare i mercati – c’è un tema molto serio che merita di essere messo a fuoco e che riguarda la possibilità che il gioco spregiudicato scelto da Salvini e da Di Maio sulla legge di Stabilità costringa i due vicepremier a scegliere una tra queste due opzioni, nel caso in cui la temperatura sui mercati dovesse rendere incompatibile la manovra con la sostenibilità finanziaria del debito italiano: fermarsi oppure accelerare, come ha fatto Puigdemont con il referendum sull’indipendenza.

 

Salvini e Di Maio potranno divertirsi ancora per un po’ a fare i bulli con i mercati, a definire terroristi i commissari europei, a dare dell’ubriacone al presidente della Commissione, a considerare dei pezzi di merda i tecnici del Mef, ma se la situazione dovesse sfuggire di mano e dovesse avverarsi la profezia messa nero su bianco tre settimane fa dagli analisti di Bank of America, secondo i quali lo spread italiano potrebbe arrivare a quota 400 in caso di manovra bocciata dai mercati facendo rivivere al nostro paese le stesse emozioni vissute nell’autunno del 2011, i due vicepremier italiani potrebbero non cavarsela più con una battuta da Giletti per rimettere a posto i cocci, e dovrebbero decidere se comportarsi da piromani, alla Puigdemont, oppure da pompieri, alla Tsipras. La competizione estremista scelta da Salvini e Di Maio, ciascuno dei quali intrappolato nell’estremismo dell’altro, non lascia presagire nulla di buono, ma rispetto allo scenario dello sfascio più che ragionare su quanto il ministro Tria e il presidente Mattarella abbiano le giuste leve per riequilibrare la pazzia populista il tema che merita di essere analizzato è legato a una sfida importante che riguarda il partito che in queste ore viene studiato con maggiore attenzione da un pezzo importante di classe dirigente italiana: la Lega.

 

Aspettarsi un sussulto di ragionevolezza da un movimento politico che crede alle scie chimiche, che dubita dello sbarco dell’uomo sulla Luna, che teorizza la fine della democrazia rappresentativa, che flirta con i No Vax, che dà spago ai No Tav, che considera le grandi opere pericolose come la peste e che tenta ogni giorno di trasformare con successo la Capitale d’Italia in una fogna a cielo aperto è un’operazione credibile come un congiuntivo di Di Maio o una discussione sulle sirene nel mare – che in effetti sono più o meno la stessa cosa. Ma aspettarsi che abbia una sensibilità diversa rispetto al tema della responsabilità un partito che tutto sommato governa bene alcune tra le più importanti regioni italiane, il Veneto, la Lombardia e il Friuli Venezia Giulia, e che tutto sommato ha creato una classe dirigente di prim’ordine, vedi Maroni e vedi Zaia, e che tutto sommato nel 2011 ha già sperimentato sulla propria pelle cosa significhi scherzare con i conti del paese, è qualcosa che dovrebbe essere quantomeno possibile visto e considerato anche quello che dicono in privato sui colleghi grillini alcuni responsabili leghisti di governo come Giorgetti, come Garavaglia e come Galli. E il punto se vogliamo è proprio questo: che spazio reale ha nella Lega di Salvini il pragmatico partito della ragione e che margine di manovra hanno coloro che hanno coscienza di quali rischi corre un paese che gioca con i suoi conti dall’alto del suo 130 per cento di debito pubblico?

 

Dopo quattro mesi di governo, il fallimento vero, per quanto riguarda il tentativo di moderare il populismo di Salvini e Di Maio, non è quello di Tria o di Mattarella ma è quello del partito del buonsenso leghista. E il silenzio incosciente dei coscienti della Lega ci porta a ragionare su un sospetto che riguarda il futuro del nostro paese e che diventa più di un sospetto considerando l’incapacità mostrata da Salvini di elaborare un pensiero alternativo rispetto a quello di Savona, Borghi, Foa e Bagnai: sicuri che il piano B del governo, lo scontro frontale con l’Europa e l’euro, non coincida con il piano A della Lega? Per il futuro dell’Italia il silenzio dei coscienti leghisti è una notizia più pericolosa dell’esplosione dello spread – e ci lascia pensare che alla prossima curva, pur di rincorrere Di Maio, Salvini non smetterà di giocare con l’acceleratore. Occhio.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.