Foto Imagoeconomica

La chiave della rinascita dell'opposizione passa dagli elettori della Lega

Claudio Cerasa

Protestare, certo, ma per fare cosa e per conquistare chi? La manifestazione del Pd e la necessità di costruire l’alternativa anti pauperista mettendosi alla guida del primo partito italiano: quello del pil

La chiave è la Lega, non il Movimento 5 stelle. I fotogrammi della manifestazione organizzata ieri a Roma dal Partito democratico per protestare contro la marcia terribilmente efficace del governo sfascista ci costringono a ragionare attorno a una serie di domande che una forza di opposizione non può più permettersi di eludere: protestare, certo, ma contro chi, contro che cosa e per conquistare chi? Le diaboliche triangolazioni tra Salvini e Di Maio, e il tentativo finora riuscito di presentarsi agli elettori come gli unici puri depositari delle istanze del popolo, hanno avuto l’effetto di sovrapporre l’immagine dell’opposizione a quella dei così detti professionisti del rigore e costruire un’alternativa al governo del popolo usando le stesse parole adottate dai tecnici, dai mercati, dalle agenzie di rating per criticare i populisti rischia di generare un pericoloso effetto boomerang e rischia in altre parole di portare acqua al mulino della retorica populista e allo schema del governo del popolo che si batte contro l’alternativa delle élite. Dunque, che fare? I fotogrammi della manifestazione del Pd di ieri ci dicono che le parole d’ordine scelte dal mondo progressista per sfidare il governo sovranista sembrano orientate a trasformare più Salvini che Di Maio nel principale pericolo del governo e la scelta più o meno implicita fatta dalla nuova classe dirigente del Pd ha una sua logica e la logica è quella spiegata la scorsa settimana sul Foglio da Gianni Cuperlo. 

  

Il governo? “Noi dobbiamo rompere quel fronte. Dobbiamo indicare il pericolo vero nella destra che Salvini incarna. Non dobbiamo ignorare che dentro il Movimento 5 stelle vive un certo numero di scombinati e quanto la loro idea di sorpasso della rappresentanza sia insana. Ma dobbiamo anche operare, nella migliore tradizione, a che quel patrimonio di un terzo di elettori (fosse pure ridotto a un quarto) si ancori al molo delle regole e degli istituti della sola democrazia esistente, quella liberale e partecipata. Anche per capire se le contraddizioni che dovessero sorgere al loro interno potrebbero spingere parte di quel movimento a una prospettiva diversa, pure in ragione di una politica di alleanze che una forza al 18 per cento ha il dovere di porsi. Insomma mai come ora oltre al testo serve il contesto, una lettura di dove siamo, almeno se dopo un certo tempo di vacanza da una realtà segnata dalla peggiore sconfitta di sempre ci poniamo la domanda fondamentale: ma noi come possiamo tornare a vincere?”. La domanda finale di Cuperlo è una domanda saggia, che si rifiuta di prendere in considerazione la vecchia idea progressista che sia meglio perdere che perdersi, ma lo svolgimento, a nostro avviso, presenta un grave errore strategico che non riguarda il capitolo delle alleanze ma riguarda il giusto bacino elettorale che un partito come il Pd avrebbe il dovere di aggredire oggi per provare un giorno a tornare a vincere. Alla nuova e futura classe dirigente del Pd può anche non piacere ma la ragione per cui l’universo progressista tende a essere rappresentato quasi esclusivamente nelle grandi città, e nelle loro ztl, è che oggi, volente o nolente, il Pd è prima di tutto il partito del ceto produttivo, il partito del pil, di chi prova a creare ricchezza nel paese, e proprio per questo giocare la carta della critica alla legge di bilancio per la sua attenzione eccessiva ai ricchi – “Fare deficit per ridurre le tasse ai ricchi non è cambiamento ma è ingiustizia”, ha detto Maurizio Martina – e provare a dimostrare che il Movimento 5 stelle è uno “sporco partito di destra come in fondo è la Lega” rischia di far perdere di vista la grande opportunità che avrà nei prossimi mesi il futuro segretario del Pd: diventare prima di tutto l’interlocutore numero uno degli elettori della Lega.

  

L’equilibrio raggiunto all’interno della legge di stabilità, con la scelta di Salvini di sacrificare la flat tax con l’abbassamento dell’età pensionabile, ci dice che la geometria del patto tra la Lega e il Movimento 5 stelle prevede sui temi economici una evidente cessione di sovranità della Lega a vantaggio del Movimento 5 stelle e non ci vuole molto a capire perché un pezzo importante dell’elettorato leghista senza una svolta sui temi economici, nonostante l’apertura di credito mostrata sabato scorso a Vicenza dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, prima o poi sarà destinato a guardarsi intorno per cercare di meglio. Un governo che gioca con gli spread, con i titoli di stato, con le borse, con i contratti in essere, con le riforme sul lavoro, con le infrastrutture, con l’alta velocità, che nella sua nota di aggiornamento del def non dedica neppure una riga al tema della produttività, che sceglie di stanziare soldi più per chi non lavora che per chi lavora e che come unico piano per sostenere l’industria sceglie di confermare gli interventi messi in cantiere dal precedente governo sul terreno dell’industria 4.0 è un governo che mentre prova a distribuire fette di ricchezza italiana è destinato a perdere contatto proprio con chi produce ricchezza. E se il Pd fosse un partito con la testa sulle spalle dovrebbe capire in fretta che per tentare di risalire la china non deve diventare leghista ma deve trovare un modo per diventare prima di tutto il partito di chi crea benessere. Ha ragione chi dice, come Cuperlo, che molti elettori del Pd sono finiti nel Movimento 5 stelle ma rincorrendo il Movimento 5 stelle sulle politiche pauperiste il Pd rischia di perdere oggi quella che è la sua unica sfida possibile: diventare il raccoglitore del primo grande malcontento che emergerà nei prossimi mesi contro il governo del cambiamento quando coloro che avevano scommesso su Salvini per far crescere l’Italia si accorgeranno che l’amalgama scelto dalla Lega e dal Movimento 5 stelle sull’economia rischia di alimentare la crescita non del pil ma solo dell’inaffidabilità del nostro paese. C’è una grande questione settentrionale destinata prima o poi a esplodere tra Piemonte, Lombardia e Veneto. E per costruire un’alternativa al governo sfascista un partito con la testa piuttosto che rincorrere i grillini dovrebbe provare a non rinnegare la sua identità e a ripartire da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.