Il Bianconiglio in Alice nel Paese delle Meraviglie (Alice in Wonderland), film di animazione Disney del 1951

Il congresso del Pd c'è ma non si vede (entro le Europee o dopo?)

David Allegranti

Tutti ora lo vogliono subito, ma la data non c’è, la base s’arrabbia e gli aspiranti candidati aumentano

Roma. “Penso che il Pd debba fare un congresso al più presto, dobbiamo sbrigarci”, dice Paolo Gentiloni. “Penso che il Pd debba fare il più rapidamente possibile il congresso: ogni giorno che passa è un giorno perduto”, aggiunge Marco Minniti. “E’ un rischio fare un congresso a poche settimane dalle elezioni Europee e dalle elezioni amministrative, io penso che non avremo il tempo di realizzare una proposta. Serve un nuovo gruppo dirigente”, rincara Stefano Bonaccini. Serve un congresso “ampio e partecipato in tempi brevi”, afferma Pietro Bussolati, segretario del Pd di Milano e consigliere regionale lombardo.

 

Le vacanze sono finite, gli studenti hanno giocato a racchettoni per tutta l’estate e si sono accorti che settembre – mese dolce e spietato – incombe, ci sono una sfilza di libri di scuola da finire prima che la campanella torni a suonare e c’è il Vaticano che pare un’assemblea del Pd e insomma farsi fregare la primogenitura sui casini dalla sacra concorrenza sarebbe troppo, ma si sono accorti pure, gli studenti, che i felpastellati procedono a tweet unificati verso trionfi europei che saranno celebrati l’anno prossimo con le elezioni di Bruxelles & Strasburgo, con il rischio che persino il mitico 40,8 per cento di quasi cinque anni fa venga consegnato all’imperituro oblio.

 

Sicché, il Pd è in piena fregola congressuale, ma l’assemblea di luglio non ha dato una data precisa, ha detto solo che si farà entro le Europee, aprendo tutto un dibattito politico-logistico-temporale sull’effettivo giorno delle primarie, e non è che – s’avanza timido un dubbio para-complottista – in realtà il nuovo segretario sarà scelto invece DOPO le elezioni della prossima primavera? Dettaglio non secondario, visto che nei congressi viene deciso che direzione o addirittura che forma dare ai partiti, non soltanto il nome del segretario, che nel 2018 è peraltro il prototipo fantozziano del parafulmine. A questo giro oltretutto dovrebbe essere pure più facile, in teoria, dividersi sull’identità da darsi piuttosto che sui nomi, visto che non c’è più – per il momento – un Renzi sul quale spaccarsi. La stagione degli uomini soli al comando d’altronde l’hanno ereditata gli altri, i famosi sovranisti che ora hanno il Capitano e Di Maio – quest’ultimo senza virili soprannomi alla Salvini – e nel Pd ci sono soprattutto un sacco di aspiranti segretari e aspiranti candidati (una sottocorrente, fatta da quelli che aspirano a candidarsi ma non hanno ancora “sciolto la riserva”), Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Marco Minniti Debora Serracchiani, forse pure Graziano Delrio e, è lecito immaginarlo, pure Maurizio Martina. La stagione, tuttavia, s’è fatta urgente: il congresso, come ha detto Roberto Giachetti ieri al Foglio, si fa sui giornali tra i dirigenti e nelle convention di corrente (da venerdì comincia AreaDem a Cortona, con Dario Franceschini, Martina e Zingaretti, l’unico renziano a partecipare sarà Lorenzo Guerini) ma er popolo non viene consultato ed è un pochino, comprensibilmente, incazzato.

 

Basta andare a una delle feste superstiti del Pd per accorgersene; le interviste sul palco si concludono con i militanti che subissano gli astanti, foss’anche l’ultimo dirigente locale, di domande che non sono domande ma interventi torrenziali dalla lunghezza castrista che servono più a rincuorare chi parla che non chi ascolta, perché #OccupyPalco è l’unico modo per discutere di alleanze, forma partito, battaglie da intraprendere in un partito in preda all’urgenza ma non alla sostanza. Per ora devono accontentarsi dei congressi regionali, a ottobre, con i renziani divisi in sotto-sottocorrenti e in molteplici candidati, e e la minoranza che si limita a dire: be’, è tutto uno schifo, cambiamo tutto.

 

Ecco, “cambiare” è una di quelle parole chiave da campagna elettorale, una delle più abusate, fa il paio con “la ripartenza dalle periferie” e la “rabbia della gente” da capire, il trionfo dell’atteggiamento liberale paternalistico, osserva Jan-Werner Mueller in “Cos’è il populismo?” (Università Bocconi Editore), “che di fatto prescrive una terapia per i cittadini ‘i cui timori e la cui rabbia devono essere considerati seriamente’”. Dunque adesso, urgentemente, è tutto un parlare di classe dirigente da sostituire, lo dice Bonaccini (“Dopo la sconfitta del 4 marzo bisognava azzerare la classe dirigente del partito nazionale, per dare un ordine alle cose”), lo ripete il segretario del Pd milanese Bussolati (occorre un “ricambio della classe dirigente a favore dei bisogni dei cittadini”) manco che lo spirito del Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie si fosse impossessato delle menti dei dirigenti del Pd: “E’ tardi! E’ tardi, sai? Io sono già in mezzo ai guai! Neppure posso dirti ‘ciao’. Ho fretta! Ho fretta, sai?”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.