Cuperlo, Orfini e Orlando (foto LaPresse)

“Sull'immigrazione abbiamo usato le parole della destra”, dice Orfini

David Allegranti

Il presidente del Pd: “Governare bene non basta. Siamo apparsi come la forza che cercava di difendere lo status quo”

Roma. Costruire l’alternativa a un “governo di destra” come quello felpa-stellato è possibile, secondo Matteo Orfini, che rifiuta dialoghi e alleanze con i grillini, da qualcuno spacciati nel Pd per una costola della sinistra. “Considero il M5s di destra”, ha detto sabato scorso in apertura della festa del Pd di Livorno. “Una forza culturalmente e politicamente sovrapponibile alla Lega di Salvini. Credo che il blocco politico nel paese tra grillini e leghisti si sia saldato molto prima che pensassero di fare un governo. Quando noi litigavamo al bar o al mercato con l’elettore che usava argomenti contro la politica, contro le istituzioni, contro la legge sui vaccini, contro qualunque cosa, facevi fatica a distinguere se era un leghista o un grillino”. Detto questo, c’è da capire come ricostruire il Pd e l’opposizione. Non è semplicissimo per un partito che è stato sette anni al governo o in maggioranza, “perché ci sono persone come me che hanno qualche anno in più e che sono abituati a fare l’opposizione. Ma c’è anche un pezzo del Pd e anche una parte dei nostri gruppi dirigenti e dei nostri parlamentari che per la prima volta si trovano in una posizione del genere e devono imparare a farlo”. C’è anche un problema di identità. Che cos’è oggi il Pd? “L’identità del Pd è quella di una grande forza di centrosinistra, che deve evidentemente rideclinare i valori della sinistra in una condizione diversa rispetto al passato. Oggi in Europa ci sono forze estreme di populismi e nazionalismi, c’è il riemergere di pulsioni che credevamo archiviate nei libri di storia. Quello che sta accadendo ogni giorno in questo paese, e che Salvini nega, come il ritorno di violenza a evidente matrice razzista se non fascista in alcuni casi, racconta l’esigenza di costruire una risposta non solo in Parlamento, ma nella società. Perché la sfida nei confronti di questa destra l’abbiamo persa prima culturalmente che politicamente”. In che modo? “C’è un pezzo di paese che non vota Lega, ma che su alcuni temi, anche a sinistra, pensa come Salvini. A me questo preoccupa molto di più di quelli che votano Salvini. E questo accade anche perché noi probabilmente negli ultimi anni quella battaglia culturale abbiamo smesso di farla, perché abbiamo immaginato che l’unica missione vera di un grande partito come il nostro fosse governare il paese e cambiare il paese dal governo. Credo che abbiamo governato bene il paese, abbiamo lasciato un’Italia che sta meglio di cinque anni fa, però abbiamo perso drammaticamente le elezioni, perché governare bene non è sufficiente, non basta più”. La questione è che “noi abbiamo fallito anche perché per una parte del paese siamo apparsi come la forza che cercava di difendere lo status quo, non quella che cercava di sovvertirlo. Oggi ci stupiamo che non prendiamo più voti tra i precari, i disoccupati, i giovani, gli operai, i ceti popolari: sono trent’anni che non prendiamo più quei voti, perché siamo stati percepiti per larghi tratti della nostra storia come quelli che non volevano cambiare gli equilibri di potere e di ricchezza di questo paese, che è chiuso, oligarchico. Una volta abbiamo rotto questo meccanismo, alle europee quando abbiamo preso il 40 per cento, perché siamo stati interpretati come la forza – in quel caso per merito di Renzi che lo trasmetteva quasi in modo pre-politico – che aveva voglia di scassare tutto, di sovvertire gli equilibri, di cambiare le cose. Poi quella forza, percepita di cambiamento, si è evidentemente appannata, o almeno non è arrivato più quel messaggio. Anche perché in alcuni casi non siamo stati in grado di rivoluzionare davvero tutto; non abbiamo avuto uno strumento all’altezza di questo compito”.

 

Contro le alleanze stravaganti

E adesso la soluzione per curare i mali della sinistra sarebbe recuperare il dialogo con l’elettorato a partire da un dialogo con il M5s? No, grazie, dice Orfini. “L’idea che siccome un pezzo dei nostri elettori ha scelto di votare il M5s noi ci dovessimo conseguentemente alleare con il M5s a me non ha mai convinto. Ho sempre ritenuto e pensato che qualora ci fossimo alleati con il M5s avremmo certificato la fine della storia della sinistra italiana”. Troppe le cose che dividono: “Casaleggio dice che tra un po’ il Parlamento sarà superato; non è una boutade, non è una sciocchezza, non l’ha detta perché aveva bevuto, l’idea che la democrazia rappresentativa vada superata è l’idea del M5s. L’idea che le istituzioni debbano essere delegittimate, l’idea che non conta ciò che è vero ma ciò che è virale, l’idea che sulle fake news, sulle bugie e sulla demonizzazione dell’avversario si costruisca una vittoria elettorale è la negazione di quello che pensa e crede una persona di sinistra. Il reddito di cittadinanza non è una proposta di sinistra, il Pci non lo voleva, ma per una ragione: nella nostra Costituzione il lavoro è dignità – ma non come il decreto di Di Maio –, il lavoro è quello che costruisce la soggettività politica, è un perno della cittadinanza. Non puoi immaginare che il lavoro sia solo il salario. Questo non significa che nel momento in cui ti trovi in condizioni di povertà o difficoltà tu non abbia diritto a un sostegno, infatti abbiamo realizzato il reddito di inclusione, di cui usufruiscono già un milione di persone. Uno strumento che va ampliato, certo, ma, insomma, da qualunque parte la si prenda, la sinistra con il M5s non c’entra nulla”.

 

C’è chi dice che bisogna superare il Pd, ma “oltre il Pd c’è la destra”. E’ una battuta di D’Alema, che peraltro ha costruito “una grande scuola di formazione, poi purtroppo è invecchiato male”, ma è una frase “vera, purtroppo. Quando la disse lui non lo era, adesso lo è diventata. Oggi, se io guardo in Parlamento, a parte uno sparuto gruppetto sotto di noi la cosa più moderata che c’è è Forza Italia, con cui non voglio avere nulla a che fare come prospettiva di allargamento del Pd”. Carlo Calenda, per dire, ha lanciato il “fronte repubblicano”, ma “l’idea di costruire una cosa che tiene insieme tutto ciò che non è il governo attuale vuol dire immaginare che si possa costruire un soggetto politico nuovo in cui noi e Berlusconi stiamo insieme. A me pare anche questa la negazione della ragione per cui siamo nati. E onestamente non fa per me, non è cosa nostra. Lasciamo Berlusconi a Salvini, tanto più che questo governo è nato grazie al permesso di Berlusconi, che è per finta all’opposizione, ma di fatto è in maggioranza”. Il discorso vale anche per chi è oggi a sinistra perché uscito dal Pd, avverte Orfini: “Non mi convince l’idea che noi risolleviamo le sorti della sinistra rimettendo insieme me, Bersani e D’Alema. Non risolverebbe nulla. Noi abbiamo preso il 18, Leu il 3. Se noi ci rimettessimo insieme sono abbastanza convinto che una parte di quelli che hanno votato per noi non ci voterebbero più e penso che una parte di quelli che hanno votato Bersani e D’Alema non li voterebbero più”.

 

Contro Minniti

Voce dal pubblico, parla un elettore livornese: “Mi dovete spiegare una cosa. Come mai noi s’è perso a Pisa? C’è stato un sviluppo esagerato di industrie, di lavoro, eppure… Il mio punto di vista è uno solo: quando uno va all’ospedale di Pisa, come si fa tutti, c’è trenta neri che ti vengono davanti. La Lega ha vinto in quella maniera”. Orfini non si scompone: “A Pisa, come in larga parte del paese, la Lega ha preso i voti sull’immigrazione. Ora, è ovvio, se uno va all’ospedale e trova un nucleo di immigrati particolarmente aggressivi o vive in un quartiere dove delinquono poi tutto questo produce una reazione. Ma la risposta a quel problema è garantire la sicurezza, il controllo del territorio, dare gli strumenti a chi deve farlo”. Però attenzione, dice Orfini, non è stato solo Salvini a “costruire l’idea che la sicurezza e l’immigrazione siano due cose legate, e non è così, perché i delinquenti possono essere italiani o immigrati. Se accetti quel nesso vince Salvini. Il tema non è indicare il nemico da fermare. Perché se la sicurezza tu la garantisci fermando l’immigrazione – e accetti quindi questa lettura – allora ha ragione Salvini: bisogna chiudere i porti, affondare i barconi e chiudere le persone nei lager in Libia, come sostiene Salvini. Noi dobbiamo rifiutare la lettura per cui immigrazione e sicurezza sono collegate. Poi, certo, dobbiamo garantire la sicurezza, e questo significa che quando un immigrato o un gruppo di immigrati delinquono devono essere presi, messi in galera o rimandati – garantendo che ci restino – nel loro paese”. Ma, dice Orfini, “la battaglia culturale per spiegare agli italiani che non si può indicare il nemico ma bisogna garantire la sicurezza non l’abbiamo fatta. La ragione per cui a me è capitato di discutere con Minniti è perché se tu sei il ministro dell’Interno di un governo di sinistra e dici che l’immigrazione mette a rischio la democrazia, come capitò di dire a lui, accetti la lettura di Salvini. Non lo puoi dire, perché se l’immigrazione mette a rischio la democrazia, è lecito fare quello che fa Salvini. Per fortuna non è vero che l’immigrazione mette a rischio la democrazia. Sono i delinquenti che la mettono a rischio, sono le mafie, la criminalità organizzata; poi, a volte, tra quei delinquenti ci sono anche gli immigrati”. Dunque, “se sei ministro dell’Interno devi dichiarare guerra alla criminalità, non indicare un nemico che ti serve perché non sei in grado di fare il tuo mestiere. Salvini questo sta facendo. Non è migliorata per niente la condizione di vita del nostro paese. Io mi sono candidato a Tor Bella Monaca, zona peggiore in assoluto elettoralmente per il Pd di Roma e piazza di spaccio modello Scampia tra le più grandi di Europa e le più controllate dalla criminalità organizzata. Salvini ci venne a fare una passeggiata in campagna elettorale dicendo ripulirò tutto. Ovviamente da quando è ministro, nulla è cambiato e nulla cambierà, perché l’attività che svolge Salvini è indicare il nemico. Prima sono i rom, poi sono i migranti, però non farà nulla per risolvere quei problemi, perché non ci riesce, perché non lo può fare perché non gli serve, perché continua a lucrare sulla rabbia nei confronti di quella percezione di insicurezza che, a volte, è insicurezza reale che i cittadini soffrono”.

 

E allora “noi questo giochetto, questo incantesimo, lo dobbiamo rompere prima di tutto tra di noi e ricominciare a dire che non è vero che è tutta colpa degli immigrati, non è vero che noi non siamo nelle condizioni di accoglierli, non è vero che sono troppi, è che sono distribuiti male e integrati male, perché abbiamo fallito anche noi sulle politiche di accoglienza e di integrazione, e che noi abbiamo bisogno di mettere contestualmente le forze dell’ordine in condizioni di garantire il controllo del territorio e la sicurezza. Dobbiamo recuperare, questo sì, l’idea che sicurezza è un grande valore della sinistra, perché della sicurezza ha bisogno soprattutto chi non se la può comprare da solo. Se tu sei ricco vai nel quartiere bene, dove non c’hai il problema della sicurezza. Se non te lo puoi permettere hai bisogno che quello sicurezza sia garantita dallo stato. Noi per troppi anni abbiamo lasciato il tema della sicurezza alla destra e poi per recuperare abbiamo accettato di declinarlo come lo declinava la destra, cioè legandolo al tema dell’immigrazione. Se continuiamo a fare così non è che Salvini vince a Pisa, vince ovunque. Da un lato, dunque, cogliamo il punto di verità che c’è in quel ragionamento, dall’altro ricominciamo a raccontare la verità agli italiani e a fare battaglie impopolari. Perché su questo tema dell’immigrazione abbiamo usato le parole della destra; perché avevamo paura del consenso che quelle parole avevano nel paese. Ma se tu usi le parole della destra, e questo vale sull’antipolitica quando usi le parole dei grillini, alla fine la gente vota l’originale”.

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.