Il governo Conte con il presidente Mattarella (foto LaPresse)

Le fatiche di Mattarella sono appena cominciate. Storia di una sera al Colle

Salvatore Merlo

L’intesa tra i proconsoli Salvini  e Di Maio. Il ruolo di Moavero e di Savona. Sorrisi, gaffe e strette di mano

Roma. Il prof. avv. Giuseppe Conte, abito sartoriale e gemelli, legge la lista dei ministri e si capisce subito che il suo non è l’elenco dell’allenatore-padrone che svela la rosa dei giocatori, ma che al contrario quella che declama è la lista del governo degli altri due, i proconsoli del populismo italiano che intanto, seduti uno accanto all’altro nella grande sala del Quirinale, si sorridono e si danno di gomito, parlottano e scherzano, Matteo Salvini a gambe larghe come fosse sulla panchina in attesa del tram, Luigi Di Maio invece composto in un sorriso bianchissimo di denti, una paresi d’intima soddisfazione. Eppure non appena Conte, divenuto presidente del Consiglio, ringrazia Di Maio nella stanza del rinfresco alla presenza dei famigliari e degli amici, ecco che il giovane Di Maio a sua volta ringrazia Beppe Grillo: “Lo ringrazio di cuore, ci incontreremo domani per goderci insieme questa vittoria”. Si rivela così, in questa piramide d’attestati di gratitudine, tutta la nuova, curiosa gerarchia del potere politico italiano, che si ricompone sotto gli arazzi stinti del Quirinale, ai piedi del potere incarnato da Sergio Mattarella: il presidente del Consiglio che risponde al suo vicepresidente che a sua volta risponde a un grande e debordante attore comico.

  

Ma c’è Mattarella, appunto, il presidente mite e imprevedibile, rigido e dalle mosse impacciate, lui che mentre lo vede prestare giuramento sorride persino a Di Maio, quello che lo voleva mettere in stato d’accusa, e poi sorride anche a Paolo Savona, l’anziano professore che lui non ha voluto all’Economia, ma che ha accettato agli Affari europei, trasformandolo così – un po’ – in una bandiera dei populisti arrivati al governo. Salvini e Di Maio hanno alla fine scoperto che non ci sono denti e solventi abbastanza efficaci per corrodere le mura del Quirinale, che appartiene a un altro mondo. Insomma entrambi, mentre gli stringono la mano, riconoscono così nel vecchio presidente un osso istituzionalmente duro. “Ma non è vero che abbiamo fatto un passo indietro. Ne abbiamo fatti due in avanti”, dice Salvini, quando si allontana a piedi dal Quirinale, tra la gente che lo bacia e lo saluta. Eppure nel battesimo di questa classe dirigente che arriva per la prima volta al governo c’è anche il cedimento e la diplomazia, con il populismo che appena entrato al Quirinale accenna passi istituzionali con la ricomparsa, in questo suo terzo giuramento, di Enzo Moavero Milanesi, il nuovo ministro degli Esteri, il braccio destro di Mario Monti, che compìto nel suo aristocratico doppio cognome, sembra quasi a disagio e persino fuori luogo. Ma è lui la prova di forza del Quirinale. Se dunque Di Maio e Salvini si sono reciprocamente imbrogliati e avvelenati per tre mesi, Mattarella è stato il regista delle buone ragioni dell’Europa e della Bce, ha posto il veto alla filosofia della baldanza guerrigliera, e ora sospira di stanchezza nel momento in cui consegna ai proconsoli il governo d’Italia, tra gli auguri di Vladimir Putin e le felicitazioni di Marine Le Pen. 

  

E si capisce che solo grazie alla prudenza di Mattarella, che li ha dosati e sorvegliati, subendone anche la scompostezza e l’aggressività fuori misura, se questo governo alla fine si è fatto, sotto gli occhi commossi di papà e mamma Di Maio, Antonio e Paolina, che da dietro a un cordolo azzurro applaudono a lungo il figliolo divenuto ministro e vicepresidente del Consiglio, tutti travolti dalla stessa gioia genuina che impedisce al nuovo ministro della Giustizia, il grillino Alfonso Bonafede, d’indossare un viso serio e di circostanza mentre riceve l’incarico dal suo ex professore di Diritto a Firenze, cioè dal prof. avv. Conte. Il quale, a sua volta, mentre incrocia lo sguardo di Bonafede è come pervaso dallo stesso moto di incredulità, e sembra dire: “Sono qui perché mi ci hai portato tu, pazzesco!”. Poco più in là, Rocco Casalino, che adesso è il portavoce del presidente del Consiglio, fa un cenno con la testa. La congiunzione astrale è d’altra parte irripetibile per tutti, o quasi. E ci si può soltanto chiedere, osservandola, se Barbara Lezzi, ministro per il Sud, rimasta famosa per aver collegato la crescita del pil con l’uso dei condizionatori d’aria durante l’estate, sappia di essere diventata adesso tutto d’un tratto l’erede del meridionalismo italiano, salutata dal rettore dell’Università del Salento, che si chiama Vincenzo Zara, come “una risorsa per l’Italia”, niente meno, insomma una specie di Gaetano Salvemini, di Giustino Fortunato o di Guido Dorso.

 

Per Mattarella il giuramento è una liberazione, ma anche un impegno, quello del controllo e forse della tutela, che adesso lo accompagnerà a lungo. Dopo tre mesi di ansie e minacce, accuse e pericoli, spread e dirette Facebook, il presidente torna alla sua vita chiusa e scarsamente mondana, ragion per la quale Mattarella è da taluni descritto come una figura estranea alla realtà, incapace di nuocere come di giovare, neutra e incolore come il timbro secco sulle carte bollate. Eppure, Paolo Savona ed Enzo Moavero Milanesi, come Salvini e Di Maio, sono pronti a testimoniare il contrario.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.