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Date la solita occhiata al meteo sul telefonino se volete capire l'Italia

Claudio Cerasa

Temporale in vista? Basta un 10 per cento di possibilità di pioggia per allarmarci e considerare il restante 90 per cento una fake news. E’ la società del pessimismo, quella coccolata dai gemelli diversi del populismo che si apprestano a governare

Lo so: ci sarebbero mille cose più importanti di cui scrivere oggi. Ci sarebbe da parlare della farsa dei gazebo della Lega. Della carnevalata del contratto su Rousseau. Della democrazia rappresentativa schiaffeggiata a colpi di democrazia diretta. Del silenzio delle istituzioni sulla cultura del sospetto iscritta in un contratto di governo. Ci sarebbe da parlare di cosa farà oggi Sergio Mattarella, con il nome del premier, e di cosa saranno costretti a perdere i gemelli diversi del populismo per portare nel sistema le proprie battaglie anti sistema. Ma oggi abbiamo deciso di parlarvi di qualcosa forse persino più importante. Qualcosa che ci permette di capire in un lampo in che senso il mondo in cui viviamo è ostaggio di una patologia ben più pericolosa delle fake news: le bad news. Per spiegarvelo potremmo citarvi l’ultimo meraviglioso libro di Stephen Pinker (“Enlightenment now”), l’ultimo fantastico saggio di Gregg Easterbrook (“It’s better than it looks”), l’ultimo tonificante volume di Hans Rosling (“Factfulness”). Potremmo citarvi mille articoli di David Brooks o di Nicholas Kristoff. Ma pensiamo ci sia un modo più facile, diretto, chiaro e veloce per darvi una prova chiara e forse definitiva della prevalenza della società del pessimismo. E quella prova è proprio lì, tra le vostre mani, sul vostro telefono, nell’icona che ciascuno di voi ogni giorno consulta per capire cosa ci aspetta nella giornata che verrà.

 

Proprio quell’icona, proprio quella funzione, proprio quella opzione: il meteo. E siamo sicuri che c’avrete fatto caso anche voi. Ogni volta che vi prendete un giorno di vacanza, ogni volta che fuggite fuori città nel fine settimana, ogni volta che avete visto previsioni catastrofiche sulla vostra giornata, siete lì che vi chiedete: ma come, non doveva diluviare? Non è sempre così, per fortuna, da anni, in modo scientifico, capita sempre più spesso che le app del nostro telefono o i siti specializzati tendano a mettere le mani avanti ipotizzando condizioni climatiche più apocalittiche rispetto a quelle reali. E in modo quasi automatico capita non solo che le previsioni del tempo tendano a essere sempre più pessimiste rispetto alla realtà ma capita anche che il vostro meteo personale vi inviterà a diffidare del giorno successivo, e a prepararvi al peggio, anche se le possibilità che ci non ci sia la pioggia, o un temporale, sono infinitamente maggiori rispetto alla possibilità che la pioggia ci sia. Guardate sul vostro smartphone, fatelo adesso, e scoprirete che è così: basta il trenta per cento di possibilità che ci sia la pioggia per farci dimenticare che in realtà quel trenta per cento di possibilità negative è più di due volte inferiore rispetto alle possibilità che i diluvi non ci siano.

 

Nella società del pessimismo è sufficiente che ci siano anche solo il 10 per cento di possibilità che si verifichi un temporale per considerare il 90 per cento delle possibilità che il temporale non ci sia come una fake news, ma ciò che ci dovrebbe far riflettere sulla catastrofica prevalenza del bicchiere mezzo vuoto è la ragione per cui non vogliamo, e a volte non possiamo, vedere il bicchiere per quello che è: non mezzo vuoto, ma quasi pieno. Da un lato, e qui la questione è tecnica, esiste un problema chiamato “principio di precauzione” in base al quale chi si occupa di meteorologia tende a sovrastimare le possibilità che le cose vadano male per provare a schivare quanto possibile la repubblica dei ricorsi, la repubblica delle denunce, la repubblica del tribunale. E’ capitato più volte, in Italia ma non solo, che una qualche amministrazione distratta o un qualche turista deluso abbiano fatto causa a un qualche meteorologo rimproverandolo di non aver previsto in modo corretto quanta acqua sarebbe caduta quel giorno nella propria città. Sindaci indemoniati per una tempesta sottostimata. Turisti indemoniati per una vacanza rovinata. E così, nel dubbio, oggi chi si occupa di meteo preferisce spaventare, esagerare, annunciare apocalissi, anche per evitare di ritrovarsi a fare i conti con qualche giudice magari deluso da un weekend non andato meteorologicamente come avrebbe sperato.

 

Oggi a essere inferociti, delusi, preoccupati per la proliferazione del principio di precauzione sono gli albergatori, chi vive di turismo, che da anni invitano chi si occupa di fare le previsioni a non essere così catastrofisti e a evitare di trasformare ogni problema potenziale in una emergenza cruciale. Pensiamoci bene. Come si fa a partire per il mare se c’è il rischio non di una pioggia robusta ma di “una bomba d’acqua”? E come si fa a organizzarsi il weekend in campagna se chi si occupa di prevedere il meteo, in caso di forte pioggia, non si limita a dire che probabilmente pioverà ma prova a far capire che tutto potrebbe andare a scatafascio perché in arrivo non c’è solo una perturbazione: c’è “un allarme maltempo?”. Ci siamo occupati in queste righe dei meccanismi che si trovano all’origine della proliferazione della società del pessimismo ma accanto a questi elementi di riflessione non possiamo che aggiungere un qualche elemento ulteriore che riguarda la ragione per cui il pessimismo non riguarda solo l’offerta ma riguarda anche la domanda: riguarda noi. L’idea che le cose debbano andare necessariamente male, l’idea cioè che il trenta per cento di possibilità di insuccesso valgano più del settanta per cento delle possibilità di successo, è un’idea che da anni si trova al centro della nostra agenda politica.

 

La dittatura del pessimismo universale ci ha portato a non uscire di casa, o a non partire per il nostro weekend, per evitare di correre un rischio solo potenziale. Ma se ci pensate bene quel settanta per cento di possibilità che le cose vadano bene è la cifra esatta dell’epoca in cui viviamo oggi. Se le lenti dei nostri occhiali sono tarate per vedere solo ciò che va male e per non vedere ciò che va bene alla fine buona parte della nostra vita e della nostra agenda pubblica non potrà che essere costruita solo mettendo in fila quello che vogliamo vedere: un mondo che va in malora. E se ciò che funziona non conta, se le cattive notizie sono notizie, se le buone notizie non sono notizie, se il bicchiere mezzo pieno è sempre mezzo vuoto, se il trenta vale come il settanta, se il settanta vale meno del trenta, alla fine succede quello che sappiamo. Succede che trionfa chi costruisce la propria offerta politica basandosi più sulla percezione che sulla realtà. Succede che trionfa chi costruisce la propria offerta politica basandosi più sulle paure che sulle speranze. Succede che alla fine gli ottimisti vengono considerati come degli incoscienti, che i pessimisti vengono considerati come dei razionali e che anche se le nuvole non sono all’orizzonte, dentro di noi pensiamo che qualcosa andrà inevitabilmente storto.

 

Per uscire dalla metafora e tornare ai nostri giorni è evidente cosa ci insegna la storia del meteo e il suo intreccio con la società del catastrofismo. Un mondo che sceglie di giocare con l’allarmismo è un mondo che sceglie di vivere nella società della paura. Un mondo che sceglie di combattere l’allarmismo è un mondo che sceglie di vivere nella società non della paura ma semplicemente delle opportunità. E quanto a Salvini e Di Maio, beh, buona fortuna. Per vincere le elezioni, può essere sufficiente spiegare agli elettori che i problemi reali sono quelli percepiti, quelli cioè costruiti sugli allarmi tarocchi. Ma una volta che hai abituato i tuoi elettori a misurare l’attività di un governo sulle paure percepite non sarà facile spiegargli che l’unico modo per dare un’accelerata all’Italia è quello di mettere da parte gli allarmi farlocchi e di occuparsi dei problemi veri. E presto o tardi, alla fine, quando arriveranno a guidare il paese i gemelli diversi del populismo si renderanno conto che le bad news sono più pericolose delle fake news. Basta un telefono per capirlo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.