Luigi Di Maio e Matteo Salvini (elaborazione grafica Il Foglio)

Buone ragioni per disperare del governo ributtante in arrivo

Giuliano Ferrara

I nuovi arrivati non mi consolano. Da tempo sento il fallimento di diverse categorie d’anagrafe, prima di tutto la mia

Che faranno? Faranno un governo ributtante, che esprime con coerenza una sovranità elettorale disgustosa, e prenderanno delle misure di abnorme stupidità, in connessione con un mandato popolare da strapaese, afferreranno e gestiranno il potere senza grammatica con la sintassi che va oggi per la maggiore, saremo più vicini ai polacchi, agli ungheresi, a Putin, ostili ai francesi e ai tedeschi, che peraltro se la passano così così, subiremo la metodologia di Trump, il quale nel frattempo fa cose buone che mi fanno imbestialire perché è lui a farle, rendendo inerte ogni felice scorrettezza. Uno vorrebbe pensare che alla fine qui prevale l’italianità sul nazionalismo lombardo e sul gruzzolo multimilionario di voti clientelari, una maggioranza schiacciante, estorto ai compatrioti cupidi del lontano meridione dai grillozzi: dunque non se ne farà niente (stiamo tranquilli) anche di questa minacciosa alluvione di cattive intenzioni, e alla fine la rottura sarà ricomposta con i nostri cari, vecchi metodi. In fondo siamo il paese che ha paura di votare quando fa caldo, appena farà freddo anche un governo bestiale cercherà riparo dalle intemperie. Ma non ci giurerei. Il Cav. è un sublime garante, ma ovviamente si è cacato sotto, et pour cause. Ormai si è capito che per vincere devi promettere delle cosacce, e poi rigorosamente farle una dopo l’altra, è la nuova regola dello Zeitgeist. Si dice spesso che uno dei problemi della politica, intesa come polemos, come guerra, è la difficoltà di definire la vittoria; bè, diciamo che per la sconfitta si può andare sul sicuro, d’ora in avanti, è questa che è arrivata, così come la vediamo, bella tonda, netta, precisa e sconfinata insieme. Totale, in una parola.

 

Non potendo specializzarmi in elegia, confessione, sentimento, disperazione in distico perfetto, perché non sono un artista, un poeta, e non ne ho la forza, e volendo preservare nella disdetta, nell’isolamento, nella caduta di ogni illusione, quel tanto di ironia o di ghignante sarcasmo ai quali sono affezionato, ecco, posso solo appellarmi al manuale di resistenza del nostro grande direttore trentenne, alla sua folgorante idea che per una volta il tanto peggio è davvero il tanto meglio: finalmente qualcuno fa un governo di sconcertante bruttezza, e toccherà a qualcuno fare un’opposizione di sacra bellezza. Presente! Quell’appello è l’unica speranza. Ma al tempo stesso io dispero, non consolato dalla brutta figura dei nuovi arrivati, che è sicura, e dai pannicelli caldi che si spalmano sul corpo tutti coloro che li hanno coltivati, protetti, incentivati, blanditi, coccolati e nutriti. Disperare è bello, mettiamola così.

 

Mio padre mi raccontava la storia di Giuseppe Garibaldi e delle sue camicie rosse, fece di me, lui che era in rivolta con le origini liberali e radicali della famiglia, un patriota e un comunista internazionalista, e per di più un antifascista. Sono poi diventato anticomunista per gli stessi motivi di Nicola Rubasciov, ho messo il pronome “io” al posto del “noi”. Nel frattempo la Repubblica aveva ballato, dalle convulsioni del 1968 a quelle del 1977, attraverso l’assassinio di Moro e l’illusione riformista e autonomista degli anni Ottanta, poi un lungo declino tra le speranze dell’89 e le disillusioni successive, dall’incarcerazione dei partiti travolti dall’uso politico della questione morale, fino agli esperimenti pop tra le manette, e la pirotecnica del buoncostume, fino agli ultimi fuochi dell’articolo 18, infine questa travolgente ondata di grottesco e di vischioso, che metterei in tortuosa relazione con l’abdicazione di Ratzinger e altre cosette insidiose capitate di recente.

 

Water, water everywhere, come diceva il poeta del vecchio marinaio, and not a drop to drink”. Ma non si deve eccellere nel lamento. Alla fine siamo sbarcati in un paese straniero, ma nel senso di estraneo, non tra i Feaci ma tra i Lestrigoni, una terra di antropofagi verbali, e ce la siamo meritata tutta e non meritiamo nemmeno di raccontarla, tanto meno per le vie ambigue di un canto funerario senza epica. Non è da oggi che sento il fallimento di diverse categorie d’anagrafe, prima di tutto la mia, e dico così perché odio la parola generazioni che ha in sé qualcosa di loscamente solidale e intimo.

 

P. S. Ieri per quel pezzetto su delitto e castigo ho ricevuto da un vecchio compagno di Torino questo WhatsApp: “Oh, stamattina una bella boccata di ottimismo. Ciao. Renzo”.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.