Beppe Grillo (foto LaPresse)

Grillo e l'incubo di dover fare politica

Salvatore Merlo

Dal vaffa alla cravatta. Troppo lo annoia la compagnia che ha radunato

Si lanciava a bordo di un gommone sulla testa dei suoi fan-militanti, rapido come un tonno superava a nuoto lo stretto di Messina, attraversava a passo di corsa i paesoni della Sicilia spiegando agli anziani piantati sulla porta di casa che “la libertà è internet”. Poi consegnava scatole di firme al ministero dell’Interno, acrobata dell’esagerazione organizzava referendum, illuminava di spettacolo le assemblee degli azionisti di Telecom, ma intanto sempre più il suo umore e il suo equilibrio venivano compromessi dalle rogne burocratiche, dai ricorsi degli espulsi, dalle querele, dai pasticci di Virginia Raggi, dai problemi amministrativi, dalle troppe regole, dagli avvisi di garanzia, dalle ambizioni governative di Casaleggio e dai rigidi incravattamenti di Luigi Di Maio. “Sono stanchino”, aveva confessato a un certo punto, in un primo tentativo di comprensibile fuga.

 

L’ultimo Beppe Grillo, che non è Mario Monti e neppure Enrico Letta, non è un tecnocrate né un uomo della grisaglia, ma un attore e un tribuno da Arena di Verona, gran commediante della televisione e del teatro, della risata e dell’imbonimento, debordante come un flusso di coscienza, non riesce neppure a far parte del se stesso che ha inventato perché troppo lo annoia la compagnia che ha radunato e fin qui diretto. La politica non ha tempi comici, non asseconda l’altalena delle sue voglie. E d’altra parte Grillo aveva fondato un movimento, e si è ritrovato un partito. Aveva un non statuto, e si è ritrovato un regolamento. Coltivava la libertà padronale di cacciare chiunque con un ps, un post scriptum in coda a una qualsiasi pezzo pubblicato sul blog (“Ecco la verità sulle energie rinnovabili… ps Federico Pizzarotti non parla a nome del Movimento 5 stelle”), e ha invece scoperto con orrore un mondo costituito da comitati di garanti, probiviri, colonnelli, caporali, avvocati, notai e commissari. E ogni qual volta si sforzava di considerare freddamente, spassionatamente, l’intero groviglio nel quale s’era cacciato, allora annaspava, soffocato. “Faccio il passo di lato”, aveva detto qualche mese fa a Rimini, ridendo e guardando Di Maio, come fosse un derelitto: “Così le cause arrivano pure a te”.

 

E allora triste e insieme felice, indeciso e bisognoso d’aiuto, martedì Grillo si è finalmente liberato: “C’è un futuro e voglio andarvelo a far vedere”, ha scritto, presentando il suo nuovo blog, che si scinde dal Movimento cinque stelle e dalla Casaleggio Associati, e che senza più responsabilità legali, tutorati ideologici e rotture di scatole, tornerà a essere il suo rifugio ribaldo. Chissà se ci scriverà anche Alessandro Di Battista, che non si candida, che ha fatto anche lui il passo di lato, e che come Grillo è l’anima pop e movimentista, scapigliata e dal ritmo accelerato: la camicia slacciata contro il contegno imbalsamato di Casaleggio e Di Maio. Perché se tutto si sfascia, se dopo le elezioni la cravatta fallisce, ecco che si tornerà ai gommoni e alle traversate a nuoto, al guazzabuglio sansepolcrista, senza rogne e senza noie, con la foga di Dibba al posto dei congiuntivi sbagliati. L’unico Movimento che non annoia Grillo. Che intanto sta lì, in attesa sulla riva del fiume.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.