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Perché Di Maio rischia grosso a candidarsi nella sua Pomigliano

Salvatore Merlo

E' la terra del termovalorizzatore di Acerra e del rilancio Fiat. Dove il M5s ha sempre perso. Il feudo di FI

Roma. Ci sono singole sfide elettorali che più delle altre finiscono con l’assumere un significato generale, diventano il collo d’imbuto da cui precipita roteando lo spirito del tempo, con i suoi mali, i suoi beni, le sue stranezze e contraddizioni. Elezioni in cui il destino in gioco è forse persino più della sola elezione di un rappresentante del popolo in Parlamento. E la scelta di Luigi Di Maio – “mi candido a Pomigliano d’Arco, che è la mia città” – finisce con il determinare, non si sa con quanta consapevolezza dell’interessato, uno di questi momenti fatali, quando, come nel famoso libro di Zweig, la bilancia della storia è sospesa in equilibrio e sembra che basti un capello per farla pendere in un senso o nell’altro.

   

E infatti Di Maio, l’uomo su cui si condensano tutte le ambizioni e le speranze di governo del Movimento cinque stelle, non solo corre in un collegio elettorale uninominale teoricamente e storicamente blindato dal centrodestra, un luogo della Campania in cui la coalizione guidata da Silvio Berlusconi deve soltanto individuare un candidato popolare al maggioritario (e dei portatori di voti al proporzionale) per vincere, come è accaduto in quella zona alle ultime politiche, alle comunali e persino alle europee. E non solo Di Maio ha scelto d’impegnarsi nella sua prima vera elezione in una terra, la sua, e in una serie di comuni – Caivano, Pomigliano, Marigliano… – in cui il Movimento di Beppe Grillo prende poche migliaia di voti (il 9 per cento alle comunali di Marigliano nel 2015, il 25 a Pomigliano, il 4 a Caivano…). Ma il ragazzo del destino a cinque Stelle si presenta in una zona della Campania, ovvero nella Acerra del termovalorizzatore, dove la monnezza si trasforma in energia, e nella Pomigliano operaia del rilancio industriale della Fiat, lì dove le parole d’ordine e le battaglie del Movimento cinque stelle contro i termovalorizzatori e contro la politica di Marchionne non sono più bolle d’aria che frullate si perdono tra gli umori dei social network e della televisione, ma sono pietre che precipitano in un contesto sociale che è in grado di valutarle, soppesarle, e probabilmente anche di respingerle. Pomigliano è anche la città il cui sindaco, di Forza Italia, fece campagna elettorale per il Sì al referendum del 4 dicembre. “Sergio Marchionne è un cittadino svizzero, gira con il maglioncino misto cachemire e fa la politica della disintegrazione dell’industria italiana”, disse Grillo, quando nel 2010 cominciava la cura Marchionne. A quasi otto anni di distanza dalla contestatissima ristrutturazione della fabbrica di Pomigliano – che nel 2010 era in cassa integrazione e stava per chiudere – lo stabilimento è oggi uno dei più efficienti d’Italia: si parla della produzione del nuovo Suv dell’Alfa Romeo, e si pagano anche i bonus produttività agli operai. Scrissero i delegati Fiom di Pomigliano a Di Maio, quando lui il 30 settembre del 2017 intimò ai sindacati di cambiare “o li cambiamo noi”: “Visto che è candidato premier e che ha già ascoltato gli imprenditori a Cernobbio venga qui da noi a spiegarci come dobbiamo risolvere i problemi della fabbrica”.

   

E la verità è che Di Maio con l’uninominale rischia grosso, a meno che non si candidi anche nel listino proporzionale, con il paracadute, tradendo però, così, uno dei principi più antichi del Movimento cinque stelle: l’avversione assoluta nei confronti delle pluricandidature. “Dal Rosatellum al merdellum”, twittò infatti il deputato Danilo Toninelli quando questa legge elettorale fu approvata in commissione alla Camera. Aggiungeva Toninelli, spiegando le ragioni della sua colorita avversione: “Oltre ai nominati e al capo politico pregiudicato, ora c’è soglia partitini a 0% e pluricandidature raddoppiate”. Pare che Matteo Renzi abbia intuito l’opportunità, e abbia proposto la candidatura uninominale a un uomo simbolo dello sviluppo industriale. Meno sveglio appare il centrodestra, che litiga, e che pure lì, con Mara Carfagna, tutti dicono vincerebbe facile.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.