Foto LaPresse

Rileggere i giornali di 100 anni fa per capire l'ignavia della grande borghesia sul M5s

Guido Vitiello

Le parole che Mieli non ha detto sullo squadrismo grillino

L’onorevole Rosato non è il Reichstag, il suo incendio è solo virtuale, e poi è sempre possibile che il piccolo squadrista grillino, in qualità di assessore in pectore ai rifiuti, intendesse semplicemente termovalorizzarlo; ma agli occhi di noi Padri weimariani, che preghiamo giorno e notte per la salvezza della Repubblica, quest’ultimo incidente è un segno, l’ennesimo, dei tempi che si preparano. Siamo poche anime qui in monastero, le vocazioni languono e i novizi svestono il saio prima di pronunciare i voti solenni. C’è stato un momento, breve in verità, in cui avevamo sperato che Paolo Mieli diventasse uno dei nostri, avremmo anche risparmiato qualche spicciolo sulla tonsura. Era il 10 novembre 2016, in piena campagna referendaria, da Lilli Gruber. Dopo la vittoria di Trump, disse Mieli sconvolto, si apre uno scenario da anni Trenta, quando militanti di destra e di sinistra, in nome dell’intransigenza, buttarono giù le democrazie parlamentari; e oggi, per non ripetere l’errore, dovremmo stringerci attorno al fortino assediato. Non siamo a Weimar, gli rispose un sovreccitato Luca Telese, io non sono Rosa Luxemburg e Quagliariello non è le SA; se vince il No non succede nulla, e poi vedrete che anche Trump si costituzionalizza. “Vede?”, lo rintuzzò Mieli, “lei è già pronto culturalmente ad abbracciare Trump”. Dal nostro coro ligneo gli innalzammo un osanna. Neppure un anno è passato e già piangiamo il nostro figliol prodigo Paolo, che definisce il Rosatellum “criminale” e “immorale” e che, dopo quei nobili appelli a far quadrato intorno alle istituzioni, non ha trovato una parola, una sola, per condannare un vicepresidente della Camera che incitava la folla a “circondare il Senato” – una di quelle enormità per cui, prima dei carabinieri, dovrebbero arrivare gli infermieri. Al Corriere ormai ci è rimasto un solo confratello, Angelo Panebianco. E la logica del “costituzionalizzare Trump” ha trovato la sua versione locale nell’auspicio di Massimo Franco di “costituzionalizzare Di Maio” – l’uomo che sobillava le folle contro quelle stesse Camere che avrebbe dovuto non solo difendere ma, inorridisco a riferirlo, perfino presiedere, mentre il capocomico incitava la polizia a mettersi dalla parte della piazza e accerchiare Palazzo Madama.

 

L’ignavia della grande borghesia e della sua stampa davanti a questi episodi di squadrismo è ormai così avvilente che per consolarmi mi immergo nei giornali di cent’anni fa. Incredulo davanti alla dabbenaggine di quei liberali persuasi che si potesse “costituzionalizzare Mussolini”, Luigi Salvatorelli nel luglio del 1922 scrisse sulla Stampa che c’era poco da scherzare con le intimidazioni al Parlamento e con l’aperto incitamento alle Forze armate perché si ribellassero agli ordini e facessero “causa comune con la piazza in rivolta”. Il suo era un appello disperato al “fronte unico di tutti gli elementi legalitari e patriottici”. Per fortuna, in questo novembre del 2017, la notte non è ancora così fonda. Ma la fiaccola digitale con cui si voleva arrostire Rosato dà luce bastante per capire, senza più alibi, con che gente abbiamo a che fare. Scriveva ancora Salvatorelli, negli stessi giorni: “Che cosa fosse il fascismo, che volesse, di che fosse capace, noi vedemmo fin da principio e dicemmo chiaramente. Ammettiamo che non tutti, subito, potessero rendersi conto della natura vera del fenomeno fascista. Oggi, ingannarsi non è più possibile a nessuno che sia dotato di un’intelligenza normale (…). Nessun rimprovero, nessun ammonimento si può rivolgere al partito fascista movendo, come taluni pietosamente tentano, dalla sua logica interna. Esso ha sempre proclamato di essere antiliberale – di volere cioè, la distruzione delle istituzioni liberali”. Di tal genere, se non tali appunto, sono le parole che vorremmo sentire oggi da una borghesia degna di questo nome.

Di più su questi argomenti: