Foto di Erin Kelly via Flickr

Come prendersi cura del proprio cervello

Alfonso Berardinelli

Tra “neurosaggezze” e populismi vari, la sfida è riuscirci senza farsi turlupinare dagli inserti culturali  

Per fortuna abbiamo poca memoria e c’è sempre bisogno di ripetersi, tornare sul tema, variarlo, aggiornarlo, dichiararlo sempre attuale o invece superato dai tempi. Il bello di un’attività come quella di leggere giornali e settimanali, supplementi e inserti culturali, è che il cervello si tiene in allenamento (altro che parole incrociate!). Si prende atto del pensiero altrui assimilando o contestando, si misurano con la realtà delle proprie limitate esperienze le grandi idee di cui si discute nel mondo. Al primo posto metterei proprio il cervello: come funziona, che cosa ce ne facciamo, come potremmo usarlo meglio. Il tema è sempre stato centrale in ogni cultura, da quando le culture esistono. Gli antichi arrivarono a pensare che nel cervello esiste una zona particolare e privilegiata capace, con un certo allenamento (gli “esercizi spirituali”), perfino di entrare in contatto con Dio. Noi occidentali abbiamo deciso, a un certo punto della nostra evoluzione-involuzione (con l’Illuminismo), che queste erano fandonie e perdite di tempo e che bisognava occuparsi solo di scienze utili e di organizzazione della società, per progredire verso un bene futuro consistente nel progredire ancora. Progredire per più sicurezza e più benessere: ma a questo punto l’ideale è starsene sdraiati al sole nella bella spiaggia di un hotel a cinque stelle senza che nessuno venga a disturbarti, strangolarti o stuprarti. Lo scopo del progresso sarebbe quindi usare il cervello al minimo, dopo averlo usato al massimo con lo scopo di evitare di usarlo. Questo scopo, però, recentemente è stato a sua volta superato. Anche in spiaggia si continua a comunicare ininterrottamente via smartphone e tablet per non uscire e non sentirsi esclusi dal traffico social.

  

Alcuni (un po’ tradizionalmente) continuano a pensare che del cervello ci si prenda cura soprattutto a scuola: e così il francese Idriss Aberkane è riuscito a trasformare in un discusso bestseller il suo “Liberare il cervello. Trattato di neurosaggezza per cambiare la scuola e la società” (Ponte alle Grazie, 336 pp., 16,80 euro). Intervistato sull’ultimo numero del Robinson di Repubblica, l’autore dice cose vecchie (benché molto giuste) vestendole da nuove (superflue o sbagliate). Cose vecchie e giuste: per “afferrare” idee e nozioni bisogna anche usare il corpo e i sensi, coinvolgere le emozioni, divertirsi a imparare (molto giusto). Ma soprattutto, aggiunge Aberkane, lavorare collettivamente, perché “il lavoro in solitudine conduce a poco e quello di gruppo è fondamentale” (piuttosto dubbio o sbagliato). E’ vero che la scuola “spegne le passioni”: ma le spegne proprio perché le passioni sono spesso individuali, mentre a scuola e in gruppo si devono fare tutti insieme tutti le stesse cose, nello stesso luogo e con gli stessi tempi: il che è costrittivo e noioso. In realtà si collabora se si è diversi. Altrimenti comanda uno solo, che dagli altri non impara nulla. Senza individui capaci di pensare da soli, il gruppo e la società diventano pericolose fabbriche di spirito gregario. Ogni bestseller, come quello di Aberkane, è fondato sul dire una cosa sola escludendo le altre. Deve cioè fare entrare nel cervello qualche forma di momentaneo fanatismo.

  

Nominando il fanatismo e lo spirito gregario si arriva presto al populismo, tema oggi tanto equivoco quanto ossessivo, non la si finisce più di pubblicare libri in proposito. Sull’ultimo numero della Lettura del Corriere se ne occupano due articoli e la nota bibliografica che li accompagna segnala ben undici volumi usciti recentemente che contengono nel titolo la parola “populismo”. Si comincia con un’intervista al tedesco Jan-Werner Müller, che insegna Teoria politica a Princeton, il cui libro “L’enigma democrazia” uscì da Einaudi nel 2012. Müller dice che c’è populismo e populismo. Ognuno ha le sue brave caratteristiche nazionali e il suo specifico odore di stalla. Ma conclude dicendo che “il nostro tempo è caratterizzato da un conflitto crescente: da una parte, chi vuole più apertura” (alla globalizzazione, alle minoranze) e “dall’altra chi vuole maggiore chiusura” (alle stesse cose). Gli studiosi di scienze sociali ci fanno sempre delle belle sorprese: ci rivelano che le cose vanno esattamente, essenzialmente come tutti sapevamo già senza aver mai studiato niente.

  

Il punto, continua l’autore, è che il conflitto vero ma anche sbagliato è quello fra tecnocrazia e populismo: questi due avversari si generano l’uno dall’altro. La società cosiddetta complessa, resa burocraticamente sempre più complessa, ha bisogno di élite tecnocratiche che sappiano cavarsela con competenza e decisione. Ma se quello che decidono nuoce alle maggioranze, ecco che allora nascono i populismi: basta con le élite e i loro processi decisionali senza controllo, vogliamo la democrazia diretta delle piazze, del vaffanculo e della rete. Secondo Müller è questa una lotta fra cose sbagliate, perché tanto la razionalità dei tecnocrati che il cosiddetto popolo autentico dei populisti sono entità irreali e illusorie. Ci vuole una mediazione pluralistica, cioè dibattito e persuasione democratica. L’errore europeo, precisa Müller, è dare tutte le colpe al populismo, mentre nella più spregiudicata democrazia americana dire populismo non è un insulto. Non tutti i populismi sono antieuropei (come quello di Marine Le Pen), ce ne sono altri che vogliono un’Europa migliore (come Podemos, dice Müller, che evidentemente ci tiene a preferire le stupidaggini di sinistra a quelle di destra).

  

Si scende di livello se invece di parlare di neurosaggezza e di mediazioni democratiche si passa a parlare di molestie, molestatori, fracasso e smania di divertirsi? No, invece. La nostra più vera vita è fatta di rumori molesti, voci che urlano, musica assordante e ubiqua, movida notturna e trasformazione degli spazi urbani in scenario di eventi e intrattenimenti “preferibilmente fragorosi”. La cultura intesa come evento che attira le masse è diventata una molestia pubblica. Ce lo ricorda l’ultimo numero dell’Espresso con due articoli involontariamente sintonici di Michele Serra e Raffaele Simone. Con loro sarebbe d’accordo anche Goffredo Fofi, che negli ultimi tempi ha lanciato una formula pregnante, quasi una bandiera per critici: “Oggi il vero oppio dei popoli è la cultura”. La cultura come rumore di fondo, arredo urbano, spettacolarizzazione delle opinioni e del pensiero, happening, eventi, animazione, feste e festival, carnevale delle idee che durano un’ora o non smettono mai di durare, maschere intellettuali, pensatori profondi in costume, ruggiti filosofici, belati neoreligiosi… Serra se la prende con Sgarbi che “senza preavviso, a un tratto, comincia a urlare come un ossesso”. Simone deplora la smania di fare turismo frenetico trattando l’intero mondo come se fosse la propria stanza, e andandosene senza rimetterla in ordine. Aggiungerei la molestia di chi pubblica non meno di due libri l’anno. Ma qui mi fermo e vado a guardarmi allo specchio.

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