Giorgio Gori (foto LaPresse)

Lombardia, Giorgio Gori c'è

David Allegranti

Intervista al sindaco di Bergamo che pensa alla corsa per la presidenza della regione e critica il Pd per le troppe sbandate grilline

Bergamo. Le quattordici e trenta di venerdì 24 marzo, piazza Matteotti, palazzo Frizzoni. Camicia bianca, occhiali da vista nel taschino. Si festeggiano i 57 anni di Giorgio Gori; in giro per gli uffici tracce di brindisi, torta al cioccolato, biscotti, crostata all’albicocca. Il Foglio incontra il sindaco di Bergamo nel suo ufficio, dove lavora dalle 8 di mattina alle otto e mezzo di sera. L’unica concessione, di solito, è un pranzo di mezz’ora a casa, tra le 13,15 e le 13,45 con la figlia quindicenne. Si parla di Pd, di Renzi, della possibile corsa per guidare la regione, visto che il prossimo anno si vota in Lombardia (“Io candidato? Non lo posso escludere”, ma “quale che sarà la decisione del mio partito poi andrà bene anche a me”).

 

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Partiamo da come sta il Partito democratico, che da qualche tempo sembra ossessionato dal M5s, al punto di imitarne una certa deriva populista. Sì, ammette Gori, “ogni tanto ci sono delle sbandate verso ciò che viene considerata oggi la sensibilità prevalente. E già considerarla come prevalente è una forma di sudditanza culturale. Prendiamo, per esempio, il pauperismo; porta a vergognarsi del fatto che una persona guadagni il giusto facendo un mestiere serio e impegnativo come la politica. Un pezzo della campagna referendaria è stata fatta anche su questi temi: meno politici, meno poltrone. E a dire il vero ci avete messo del vostro voi giornalisti: questa sensibilità è stata costruita dalla stampa, poi i grillini l’hanno fatta propria. Tutta la polemica sulla Casta nasce prima di Grillo”. Il risultato è un mix di “invidia sociale e di idea che il merito non valga nulla e che tutto debba essere appiattito. L’idea del tetto di 240 mila euro in Rai è figlia di questa cosa e penso sia sbagliata. Mi piacerebbe che il Pd rivendicasse una sua diversità, un suo riformismo, a partire dal valore del merito e dalla dimensione del mercato”.

 

Magari in campagna elettorale, al referendum, spiega il sindaco di Bergamo, “è possibile che i sondaggi accreditassero questa visione, però secondo me alla lunga non paga tanto. Perché ci fa scivolare nel loro terreno. E allora tra l’originale e quelli che un po’ scopiazzano, è meglio l’originale”. Prendiamo il caso dei voucher, aboliti dal governo. “E’ un segnale di debolezza, una conseguenza psicologica del 4 dicembre, come se uno andasse in campo meno sicuro dopo una sconfitta. Il Pd dovrebbe fare come l’Atalanta, che dopo aver perso 7 a 1 contro l’Inter ha vinto tre a zero la partita successiva. Invece, piuttosto che rischiare di perdere il nuovo referendum, è stato smontato subito tutto, dando la partita vinta all’avversario prima di cominciare. Ma sono sicuro che questa fase passerà, anche grazie al congresso del Pd”.

 

Diverso invece il discorso sull’Europa, dove “ci sono giustificazioni di una polemica antitecnocratica, perché davvero l’Europa ha dato l’idea di essere un po’ insensibile. Però anche in quel caso siamo al limite, e ogni tanto percepisco che forse si dice una parola di troppo. Oggi infatti credo che sia più importante rivendicare una vocazione europeista convinta, che non mettere in luce i distinguo, le obiezioni: non ci può essere dubbio da che parte stiamo del campo. Devo dire che nella mozione di Renzi, la parte sull’Europa è molto buona ed è ben costruita”.

 

Ma Renzi dopo il 4 dicembre ha reagito bene? “Ho avuto l’impressione che la botta si sia sentita, che per un paio di mesi si sia stati un po’ fermi sulle gambe, Matteo per primo ma anche tutti noi. Come uno che ha preso un cazzotto forte. Adesso invece mi pare che si sia capito che cosa dobbiamo fare. Al Lingotto, ma anche prima: io trovo che la scelta del ticket con Maurizio Martina sia un passaggio di grande valore, non solo simbolico. Come a dire: ho capito di aver fatto degli errori e cerco adesso di ripartire correggendo in parte la rotta”. Secondo Gori il contesto internazionale aiuta.  Può sembrare paradossale, ma il fatto che ci sia Macron in Francia e che Schulz stia sfidando la Merkel dimostra che ci sono “dei punti di riferimento. Per lungo tempo il Pd è stato solo in Europa, era la principale forza riformista in un momento in cui la sinistra andava a viole. Adesso secondo me c’è l’occasione per triangolare bene”.

 

“Vista la concomitanza delle scadenze elettorali – prosegue Gori – sarebbe bello poter costruire una piattaforma comune, che metta insieme il meglio dell’elaborazione del Pd, di Macron e dei socialdemocratici tedeschi”. Insomma, dice Gori, è giusto grattare la pancia all’Europa. “Il tema dell’immigrazione è il più clamoroso; la dimensione tecnocratica non coglie il punto politico e di sensibilità della popolazione. Per questo vedo la possibilità per uno scatto nell’integrazione europea, grazie a questi tre paesi che sono i fondatori dell’Unione e che sono quelli che hanno maggiori possibilità di provare a mettere in comune più cose”.

 

Intanto però c’è da fronteggiare il populismo. Gori dice che i populisti si possono battere solo con il “riformismo”. Parola che può voler dire molte cose. “Il riformismo è una visione molto ispirata dal punto di vista dei valori ma anche molto pragmatica, che tiene conto della realtà e che si applica con impegno per cercare delle soluzioni sostenibili, senza fughe in avanti, senza annunci mirabolanti cui non seguono poi i fatti, senza scorciatoie, senza cose demagogiche che servono soltanto a strappare un applauso o una sequenza di like che poi non hanno nessun tipo di concreta capacità di risolvere i problemi”. Gli 80 euro sono serviti a qualcosa? “Sì, anche se non sono stati raccontati nel modo migliore, cioè come una forma di rimodulazione della pressione fiscale a vantaggio dei ceti medi e popolari. E’ passata invece come un’elemosina. Forse non siamo stati bravi a raccontarla. Non era una mancetta, ma un pezzo di riforma fiscale”. Non sono dunque mancati gli errori in questi ultimi mesi e anni a guida renziana. Per esempio nella gestione del Pd. “La poca considerazione e la poca cura che Renzi ha dedicato al partito è stata una delle cose che hanno prodotto questo risultato. Abbiamo pagato il fatto di non avere un organismo fortemente radicato nel territorio, connesso e attivo nella rappresentazione del vero significato della riforma. Renzi ha contato sul fatto che la sua comunicazione individuale potesse essere non mediata da enti intermedi e che potesse in qualche modo coinvolgere direttamente l’elettorato”.

 

Insomma si può dire che la disintermediazione ha fallito? “Secondo me sì. Io credo che ci sia la necessità oggi di un recupero dell’articolazione dei corpi intermedi, molti dei quali, per carità, sono in difficoltà di per sé. Però la visione di poter trasformare la società in un tempo breve da Palazzo Chigi aveva qualche debolezza. Oggi tuttavia credo che lui sia più consapevole del fatto che ha bisogno di un partito per poterlo fare. Quando rivendica il doppio ruolo e dice che per poter essere domani un premier efficace ha bisogno di essere anche il capo del partito rivela la comprensione di questo momento. Poi, naturalmente, il partito deve essere una cosa viva che funziona, non una specie di contenitore mezzo morto”.

 

Da settimane in Lombardia si parla di Gori come possibile candidato alle primarie di centrosinistra per la guida del Pirellone. Lui un po’ si tiene sul vago, ma neanche troppo. Dice di essere “molto contento di quel che faccio” e in effetti pare che Gori si diverta a fare il sindaco. Però la pressione si fa sentire. Qualche giorno fa il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha espresso apprezzamento per l’eventuale candidatura di Gori alle primarie. Domanda del cronista: che cosa vuol fare il sindaco di Bergamo da grande? “Non lo so. Non ho mai pensato che questo lavoro a Bergamo fosse il primo gradino di qualcos’altro. L’ho sempre vista come una cosa che aveva senso in sé, se fossi riuscita a farla bene. Poi ovviamente l’apprezzamento di Sala o di altre persone oggi mi fa molto piacere. Però non so se sia la cosa giusta, se sia io quello giusto. Ho, intanto, un’idea più generale, e cioè che l’esperienza di buon governo delle città che il Pd ha messo in campo in questi anni in Lombardia possa essere davvero la base per proporsi agli elettori lombardi per assumersi la responsabilità dell’amministrazione regionale. E’ la cosa più solida che abbiamo da spenderci. Che sia io quello in grado di incarnarlo non lo so. Lo capiremo”. Quindi ci sta pensando? “Non ci avevo pensato fino a quando non hanno cominciato a dirmelo un po’ di persone”. Quindi non lo esclude? “Non lo posso escludere, perché è una cosa cui tengo molto e quindi quale che sarà la decisione del mio partito poi andrà bene anche a me”. Ci sarebbero, naturalmente, delle primarie di coalizione. Già, ma con quale coalizione? Al sindaco di Bergamo piace molto Pisapia. “Penso che Giuliano esprima una leadership  inclusiva e una visione, praticata nelle elezioni milanesi, che poi ha ispirato altre elezioni amministrative lombarde, che consente di immaginare una convergenza fra Pd e il suo movimento”. Ovviamente, dice Gori, “l’altro pezzo molto rilevante è quello civico, che è stato decisivo per ognuno di noi sindaci per vincere nelle città. La mia lista civica a Bergamo ha preso il 14 per cento e quindi è stata molto importante per vincere. Penso che questo schema di gioco si possa riprodurre anche a livello regionale”. Parola di candidato?

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  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.