Pizzini e illazioni: il circo mediatico-giudiziario che rende superflui i processi

Fabio Cammalleri

Nell’indagine Consip c’è tutto quello che rende un istituto regolato dalla legge un equivoco semigiuridico

Nell’indagine Consip c’è tutto quello che rende un istituto regolato dalla legge un equivoco semigiuridico.

 

C’è il ruolo delle persone coinvolte che, pubblico o privato, può renderle fucina di gravissimi effetti extragiudiziari. E c’è l’abuso del suo carattere “preliminare”: in un’indagine che il codice qualifica a partire da questo aggettivo, si fanno scoperte precarie per definizione: che dovrebbero far pensare al giudizio con l’umiltà quasi tremula che può solo stare in attesa di un pollice verso o retto; e invece, al posto di un silenzioso procedere, ulula il dileggio autorizzato, la lapidazione paralegale.

 

Ora, per trasformare una serie di scoperte precarie in una conoscenza inamovibile, per mutare, sotto i vostri occhi, il “preliminare” in “definitivo”, occorre un congegno che semplifichi e, al contempo, munisca questa semplificazione di una insidiosa plausibilità. Si tratta di un congegno illegalistico: perché si fonda su quello che possiamo chiamare “il grado zero della prova”: dato che tende a rendere superfluo il processo, a neutralizzarlo. Esso agisce come un’ostensione: svela nascondendo, nasconde svelando. L’altare è la gazzetta; l’assemblea “la pubblica opinione”.

 

Questa indagine, pertanto, è come molte altre similari: offre però un esempio particolarmente vistoso del congegno in corso d’opera.

 

Appunti ritrovati a pezzi nella pattumiera, e poi ricomposti: subito se ne ricavano segni, illazioni, allusioni. Se non ci fosse il congegno deformante, che a quanti lo maneggiano permette di vedere quello che gli altri non vedono, di leggere quello che gli altri non leggono, l’origine stessa di quei pezzi, meno che anonima, li consegnerebbe, se non a una minorata capacità esplicativa, certo a uno scrutare sospeso.

 

E invece, ciò che doveva suggerire almeno cautela, grazie al congegno, assume un magnetismo aberrato e attrae, lega, cattura. E si va oltre; non solo è un appunto fatto a pezzi, sparso fra altri pezzi e altri olezzi, ma è un “pizzino”. L’attrazione si completa e si fissa: evocando un metodo conoscitivo di oscurissima e tristissima consuetudine; così, un gergo malavitoso fa da coagulante conclusivo, e una “pubblica fede criminale”, nasce a spodestare la “pubblica fede civile”: se hai un testamento, sei un heres, sei il nome del padre che prosegue e vive nella regola; se hai un appunto, stai ancora tra un ufficio e una pattumiera; ma se hai un “pizzino”, non c’è partita: sei comunque un reietto, un dannato, un criptomafioso, già perduto con il solo contatto.

 

Simile maieutica condiziona, quasi circuisce l’osservazione. Aprite un giornale a caso, in queste ore: leggerete, ma non leggerete; vedrete, ma non vedrete; intenderete, ma non intenderete.

 

Una “T.”; una “L.”; una sigla “C.R.”, un numero “30”, e si mostra un T(iziano Renzi), L(uca Lotti), C(arlo) R(usso); 30(000) euro. Anche ammessa questa decrittazione, nulla è noto sulla paternità dei segni grafici; nessuno di questi implica frequentazione, o anche solo conoscenza diretta fra soggetto che avrebbe scritto un nome, e soggetto che quel nome porta; la cifra viene liberamente moltiplicata e munita di valore monetario. “Bonifaz”; o “Bomi Far.”? “PESS.” o “PE99” o “PE98”? Sembra che i cognomi Bonifazi e Pessina, posti insieme siano più logici; ma quanto sarebbe logico criptare “Bonifazi” con “Bonifaz.”? I pezzi ricomposti paiono combaciare; ma come, una persona sottoposta alle indagini, potrà seriamente porre dubbi sul modo della ricomposizione, sulla sua congruenza, se il congegno, l’ostensione, zittisce l’assemblea al tempo stesso che l’aduna? Non potrà, già non può più, perchè l’ostensione è avvenuta: ci sono i soldi, ci sono i traffici, ci sono le influenze, ci sono “quelli”.

 

Chi dall’esterno osserva l’appunto può forse intuire che si tratta solo di una delle scoperte precarie; e che, oltre a questa, ce ne sia una varietà; ma ignora tutto di questa varietà: ignora se quella scoperta è l’ultima o la prima; se da sola permette realmente la conoscenza che sembra promettere; o se, quando fosse posta accanto ad una delle altre precarie scoperte, la conoscenza già apparsa piena, riuscirebbe invece balbettante.

 

Sul piano degli effetti sistemici, il risultato è presto detto: giacché si è osservata, quasi contemplata, quella scoperta entro una liturgia sacralizzante, si consolida in questo modo la suggestione che essa conduca, una volta per tutte, all’intera conoscenza: il giudizio processuale, che è dialogica e razionale intelligenza selettiva, non serve.

 

A taluni è forse fin qui sembrato che le note proposizioni sulla colpevolezza penale, che può solo essere scoperta oppure occultata, e mai però mancare, fossero solo stilemi polemici, magari vivaci, ma semplici stilemi: sono, sia chiaro, l’epigrafe (non l’ultima, non la prima) di un piano d’azione a largo raggio, risalente, e tenacemente perseguito.

 

L’indagine, così riconfigurata, è Tirannia; il processo, Democrazia. La sua soppressione più efficace, per lungo ordine di esperienze, è sempre stata quella che ne salva il nome. Una sentenza di assoluzione o di condanna, è quasi sempre resa superflua dagli effetti “anticipati” dell’indagine/ostensione: Democrazia e Processo non ci sono più; giacciono tuttavia esanimi le loro spoglie. E tanto basta a una liquidazione, di istituti e di istituzioni, assai più efficace di ogni radicale abrogazione, di ogni tonitruante proclamazione.

 

Perché, entro una veste legittimata, la liquidazione agisce indisturbata su ciascuno: uno per volta, casa per casa, vita per vita.

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