Antonio Ingroia ad Avigliana per dibattito "NO al TAV in Val di Susa" (foto LaPresse)

Il metodo Ingroia e Associati

Claudio Cerasa

L’inchiesta contro l’ex pm nasconde utili lezioni sul circo mediatico-giudiziario

La notizia dell’iscrizione di Antonio Ingroia nel registro degli indagati della procura di Palermo, con l’accusa di peculato, brutta storia, riguardando un magistrato di professione e non un politico di professione probabilmente non troverà spazio sulle prime pagine dei giornali ed è possibile che verrà trattata con toni lievi e liquidatori anche dal penoso partito delle manette, sempre pronto a fare giustizialismo con il di dietro degli altri e a giocare con il garantismo quando sotto indagine si ritrova un iscritto alla Super Casta della Magistratura. Quasi nessuno ne parlerà, dunque, eppure l’indagine contro Ingroia offre all’osservatore non distratto diversi spunti di riflessione che forse vale la pena mettere insieme.

 

Sarebbe troppo facile far notare che le disavventure dei campioni della moralità chiodata sono ormai all’ordine del giorno (ah questi moralizzatori moralizzati). E sarebbe troppo facile utilizzare contro i Ciancimino jr. (già icona dell’antimafia, per Ingroia, ora arrestato per detenzione di esplosivo e riciclaggio) e le Silvana Saguto (già presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ora indagata anche per associazione a delinquere) gli stessi metodi utilizzati in passato dalla Ingroia e Associati, considerando cioè tutti colpevoli e furfanti fino a prova contraria.

Se Ingroia fosse un nemico della Ingroia e Associati, la sua vicenda sarebbe infatti raccontata senza mezze misure: il suo interrogatorio di ieri in procura verrebbe descritto non con le fattezze di un “colloquio” ma con le fattezze di un indagato finito “sotto torchio” e siamo certi che i 117 mila euro sospetti legati a un’indennità che secondo i magistrati non ci sarebbe dovuta essere (ahi ahi) e i rimborsi che secondo la procura Ingroia si sarebbe fatto accreditare senza averne diritto (ahi ahi) verrebbero a loro volta descritti come se fossero prove inappellabili di qualcosa di illecito che potrebbe aiutare a scoperchiare una “nuova grande cupola del malaffare”. La moralizzazione dei moralisti è ormai un topos letterario ma ciò che incuriosisce della storia di Ingroia, fino alle lacrime, non è l’indagine in sé ma è un passaggio strepitoso contenuto nella nota difensiva pubblicata ieri pomeriggio dall’ex pm della Trattativa.

 

Scrive Ingroia, in modalità cabaret: “Sono certo che la procura di Palermo saprà agire con la stessa energia e saggezza dimostrata dalla procura di Roma dopo la fughe (la fughe, sic) di notizie sull’inchiesta Consip, perché è stupefacente che la notizia sia stata data dalle agenzie di stampa solo pochi minuti dopo che io ho lasciato gli uffici della procura”. Senza rendersene conto, dunque, l’ex pm ci sta dicendo che (a) le procure sono colabrodo dalle quali escono costantemente informazioni che vanno a nuocere il segreto istruttorio e vanno a ferire la dignità degli indagati; (b) che un indagato è legittimato a pensare che dentro una procura sia possibile trovare qualcuno che, mosso da un pregiudizio di qualche tipo, può muoversi in modo indisturbato per colpire un indagato; (c) che una magistratura seria dovrebbe fare di tutto per non essere partigiana e dovrebbe dunque indagare intorno a questo strano rapporto patologico che esiste tra mezzi di informazione e procure.

 

Tutto giusto e tutto meravigliosamente corretto – così come corretta e a suo modo deliziosa è stata la solidarietà espressa a Ingroia, “vittima di un attacco giudiziario”, dall’amico Fabrizio Cicchitto. Resta però solo un punto che forse andrebbe chiarito. C’è solo un piccolo mistero: nel 2013, ma forse sbagliamo noi, ci fu un pm che, scortato dallo stesso codazzo orrendo che oggi sostiene l’ascesa del Movimento 5 stelle, si candidò alla presidenza del Consiglio, poco dopo essere andato in Guatemala a salvare il mondo, rivendicando la necessità per un pm di essere “mosso da valori costituzionali che non lo rendono del tutto neutrale” e facendo leva su un consenso costruito grazie all’uso abile del circo mediatico-giudiziario. Solo che ora abbiamo un piccolo vuoto di memoria: ci aiutate voi a ricordare come si chiamava?

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.