Il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Ma Renzi “si deve caca' sotto” o no?

Claudio Cerasa
Tutto può succedere, ma che c’azzeccano le sfide di Roma, Torino, Milano, Napoli, Cagliari con la partita nazionale? Nulla. Le amministrative: cronaca anticipata di una non rivoluzione ordinaria (ah, ricordate gli arancioni?).

Si vota tra venticinque giorni, si vota in mezza Italia, si vota in 1.368 comuni, si vota nel 17 per cento delle amministrazioni italiane, si vota a Torino, a Milano, a Cagliari, a Roma, a Napoli, a Bologna, a Trieste, a Ravenna, a Salerno, a Novara, a Latina. Si vota per esprimere il consenso di un pezzo di paese su vari candidati sindaco, i Sala e i Parisi, i Fassino e gli Appendino, i Raggi e i Giachetti e i Marchini, i De Magistris e le Valente, ma secondo qualcuno, gulp, si vota in realtà per esprimere un consenso più generale, più grande, più definitivo, sul sindaco d’Italia, ovvero Matteo Renzi. A meno di un mese dal primo turno delle amministrative, alcuni tratti delle varie campagne elettorali indicano però che, come spesso accade quando si vota per i comuni, trovare un unico comun denominatore nelle varie partite locali è particolarmente dura, forse impossibile, e non c’è una sola delle grandi città al voto che riproduce con fedeltà quello che sarà lo schema elettorale quando si andrà a votare a livello nazionale (noi diciamo il prossimo anno, dopo il congresso del Pd, ma chissà). Non è un modello Roma perché nella Capitale, una città fallita reduce da due amministrazioni a loro volta fallimentari, segnata da un’inchiesta che ha stampato il bollino “mafia” sulle casacche dei partiti di governo spianando la strada agli outsider lontani dai partiti “mafiosi”, lo schema di gioco presenta una frammentazione che non ci sarà a livello nazionale e sarà difficile un domani ritrovarsi con un Berlusconi più vicino a Renzi che a Salvini, con un candidato del centrodestra che rivendica le sue origini partigiane, con una candidata grillina cresciuta nella scuola Previti che vuole combattere i poteri forti con il consenso dei poteri forti, con un candidato della sinistra che non riesce a presentare i moduli giusti per correre alle elezioni (Podemos? ’Ndannamos) e con un candidato del Pd che ogni giorno non perde occasione per dimostrare ai suoi elettori di non aver proprio nessuna voglia di fare campagna elettorale.

 

 

Non è un modello Roma, evidentemente. Ma non è neanche un modello Napoli, con un sindaco più grillino dei grillini (i grillini, intanto, a Napoli hanno candidato un non napoletano che di cognome fa Brambilla) che invita Renzi a “cacarsi sotto” e ad “avere paura” e che viene da un partito (Idv) il cui massimo esponente oggi zappa la terra in Molise (Di Pietro) e che fa parte di un movimento (la rivoluzione arancione) che cinque anni fa avrebbe dovuto conquistare l’Italia (“scassiamo tutto”) salvo incidentalmente ritrovarsi cinque anni dopo con molti colleghi di quella rivoluzione (Pisapia) pronti ad allearsi con il candidato del partito guidato dal premier che “si deve caca’ sotto”. Non è un modello Napoli, evidentemente, ma non è un modello neanche Cagliari, con un sindaco di centrosinistra, Zedda, tessera numero due del partito dello scassiamo tutto, iscritto a Sel, sostenuto a Cagliari dallo stesso partito guidato da un premier che il segretario di Sel, Vendola, considera un pericolo per la democrazia. Non è un modello Cagliari, evidentemente, ma non è un modello neanche Torino, da molti punti di vista, perché la sfida tra il Partito della nazione guidato da Piero Fassino e il Partito dell’altra nazione guidato da Chiara Appendino potrà essere anche suggestivo ma difficilmente si potrà trasformare in, semplifichiamo, “quello che potrebbe succedere alle prossime elezioni in caso di sfida tra Renzi e il Movimento 5 stelle”: banalmente perché Piero Fassino non è Matteo Renzi, perché il centrodestra (che a Torino non esiste) nel resto d’Italia esiste, perché Torino non è l’Italia e perché ogni elezione locale fa storia a sé. Lo stesso si potrebbe dire di Milano, città che amiamo alla follia, dove i due candidati sindaco – Beppe Sala e Stefano Parisi, che il Foglio intervisterà, nel corso del loro primo incontro pubblico organizzato da questo giornale, venerdì 20 maggio a Milano al Teatro Parenti – sono due candidati atipici, non solo per essere espressione di un centrosinistra riformista e di un centrodestra moderato che si fa fatica a individuare in tutto il resto d’Italia e non solo per essere un caso originale di un candidato di centrodestra con sfumature più di sinistra di quello di centrosinistra, e viceversa, ma anche perché il modello Milano, città a suo modo unica e disgraziatamente diversa dal resto d’Italia, è drogato in positivo dall’essere un comune del tutto degrillizzato e dunque, al momento, non in linea con quanto succede nel resto dell’Italia. Comunque andranno a finire, sia in caso di vittoria di Renzi sia in caso di sconfitta del premier, le elezioni comunali, a voler essere onesti, sono da sempre, tranne l’eccezione del 1993 con i sindaci eletti sull’onda di un ricambio della classe dirigente generato dall’introduzione di un nuovo sistema elettorale, lo specchio di un paese che esiste solo nel suo contesto locale. E nella storia recente italiana e non solo (pensate a quante città ha conquistato Podemos un anno fa, Barcellona e Madrid, e pensate ora alla faccia depressa del compagno Iglesias) sono frequenti i casi in cui è stato dimostrato che le amministrative riescono a mobilitare con più facilità un elettorato desideroso più di sanzionare che di premiare chi governa il paese (se le elezioni di cinque anni fa fossero state un’anticipazione di quello che sarebbe dovuto succedere alle successive politiche, al giro successivo avremmo avuto come premier Luigi de Magistris, come vicepremier Nichi Vendola, come ministro alla Trattativa Antonio Ingroia, come ministro all’Agricoltura Antonio Di Pietro e come ministro ai Rapporti con le procure Henry John Woodcock).

 

Tutto può succedere, naturalmente, e non dubitiamo che il dato sull’affluenza, le preferenze dell’Appendino, i consensi della Meloni, gli scassiam’ di De Magistris avranno riflessi definitivi sul destino del paese – e non dubitiamo che qualcuno, come ha ripetuto anche ieri Silvio Berlusconi, proverà a trasformare il voto delle amministrative “in un avviso di sfratto al governo e un primo passo sul percorso per il referendum sulla Costituzione dove vincerà assolutamente il no”. Tutto può succedere, certo, ma prima di dire che i voti di Sala e di Parisi, di Fassino e di Appendino, di Raggi e Giachetti e Marchini e De Magistris e Valente serviranno a capire quale sarà l’inevitabile ventura del paese fate un bel respiro, pensate a che fine ha fatto il movimento Arancione (nato nel 2012, sostenitore della lista Rivoluzione civile di Antonio Ingroia nel 2013, tornato a zappare la terra nel 2016) e pensate se davvero le storie dei Nogarin, delle Raggi e delle Podemos italiane sono le tracce giuste da seguire per capire, senza possibilità di errore, se c’è qualcuno pronto a far cagar sotto Renzi e in definitiva, come si dice, a scassare l’Italia.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.