Matteo Renzi alla Leopolda del 2014 (foto LaPresse)

Cosa direbbe il Renzi della Leopolda al Renzi di governo

Redazione
Abbiamo preso le “proposte per cambiare l’Italia” formulate nel 2011 dall’ex sindaco di Firenze e abbiamo verificato cosa è stato mantenuto e cosa no nella rottamazione renziana. Luci e ombre. Ecco i risultati

Era la Leopolda del 2011, erano i tempi del Mario Monti in arrivo e della fine dell’esperienza del governo di Silvio Berlusconi e per la prima volta nella sua vita, pur essendo ancora sindaco di Firenze, Matteo Renzi si ritrovò nella condizione di dover dimostrare che la sua offerta politica andava ben oltre la rottamazione (espressione usata da Renzi per la prima volta nel 2010). In quell’occasione, Renzi, alla fine della Leopolda, decise di mettere insieme le “cento idee per cambiare l’Italia”. Quattro anni dopo la Leopolda non è più, semplicemente, il luogo della proposta alternativa per provare a cambiare il vecchio sistema della politica ma è il luogo in cui una nuova classe dirigente prova a misurare il peso della sua azione riformatrice. La domanda dunque è quasi spontanea: in un anno e mezzo di governo  che cosa ha fatto Renzi rispetto a quanto promesso quattro anni fa, in quella Leopolda dove per la prima volta tracciò un profilo del renzismo di governo? Abbiamo preso, delle cento proposte renziane, quelle più importanti relative a due dossier: riforma della politica e delle istituzioni, idee per “far tornare i conti e rilanciare la crescita”. Vediamo cosa ha fatto e cosa non ha fatto Renzi nei primi anni di governo.

 

1. Basta con il bicameralismo dei doppioni inutili. Cominciamo dalla testa. Il Parlamento, la sede della rappresentanza in cui si riflette la sovranità popolare, è oggi tra le istituzioni più denigrate e discreditate, anche perché è inefficiente. Quasi mille componenti e due camere che fanno lo stesso mestiere, entrambe titolate a dare e togliere la fiducia al Governo, con due serie di Commissioni che operano sulle stesse materie, due filiere dirigenziali, doppie letture su tutte le leggi, non hanno nessuna giustificazione. Una delle due camere va semplicemente abolita. Ne basta una sola, veramente autorevole, composta da non più di 500 persone. Al posto dell’attuale doppione serve un organo di raccordo tra lo Stato e i governi regionali e locali che possa anche proporre emendamenti a qualsiasi proposta di legge su cui la Camera elettiva si esprime in ultima istanza a maggioranza qualificata.

Con la riforma Boschi si supera il bicameralismo perfetto: il Senato non viene abolito ma riformato come organo di raccordo con gli enti locali nel senso indicato dalla proposta. Per quanto riguarda il numero dei parlamentari, al Senato si riduce di oltre due terzi passando a 100 membri, mentre rimane invariato alla Camera che continua ad avere 630 deputati e non 500 come proposto alla Leopolda.

 

2. Le elezioni diano potere ai cittadini non ai segretari di partito. Per ridare autorevolezza al Parlamento bisogna innanzitutto abolire il “Porcellum”, l’attuale legge elettorale che consente la nomina dei parlamentari da parte delle segreterie dei partiti, tornando ai collegi uninominali.

Con l’Italicum si supera il “Porcellum” ma non si torna ai collegi uninominali. La nuova legge elettorale dà maggiore facoltà di scelta agli elettori con l’introduzione delle preferenze, ma attraverso la scelta dei capilista il potere di nomina di fatto resta saldamente in mano ai partiti. In questo senso l’Italicum è sì una legge fatta sul modello dei sindaci ma è più simile al Porcellum che alla proposta leopoldina dei collegi uninominali che erano il cardine del Mattarellum (il sistema elettorale precedente).

 

3. La politica non sia la via breve per avere privilegi e una buona pensione. Aboliamo tutti i vitalizi per i Parlamentari e i Consiglieri regionali. La politica torni a essere assolvimento di un dovere civico e non una forma di assicurazione economica. Le risorse spese per i singoli Parlamentari devono essere portate alla media europea, distinguendo nettamente le indennità dalle risorse messe loro a disposizione per l’esercizio dell’incarico, che devono essere amministrate dagli uffici del Parlamento.

Dopo l’intervento Monti-Fornero che ha introdotto il metodo contributivo per i nuovi eletti, il Parlamento sta discutendo l’estensione di quel sistema di calcolo a tutti per toccare i “diritti acquisiti” degli eletti nelle precedenti legislature, però non si parla di più “abolizione di tutti i vitalizi”. Non è stato toccato neppure il trattamento economico dei parlamentari, che in Italia resta superiore alla media europea.

 

4. Un costo standard per le Regioni. Oggi i Consigli delle varie Regioni hanno costi sproporzionati, che variano moltissimo senza nessuna giustificazione. Non sono legati alla dimensione dei territori che i Consigli dovrebbero rappresentare e nemmeno al numero dei loro componenti. Si va dai 35 milioni di euro dell’Emilia-Romagna agli oltre 150 milioni di euro della Sicilia. I consiglieri regionali devono avere un compenso e, chiaramente distinto da questo, un budget per le attività di servizio uguali in tutte le regioni. Deve essere definito il “costo standard” per il complessivo funzionamento delle assemblee legislative regionali fissandolo ad un valore compreso tra gli 8 e i 10 euro annui per abitante.

Le spese di funzionamento dei consigli regionali dipendono dalle regioni, ma il governo è intervenuto sul tema a livello costituzionale attraverso la riforma Boschi che introduce un tetto agli stipendi dei consiglieri regionali: gli emolumenti non potranno superare quelli dei sindaci del comune capoluogo di regione.

 

5. Abolizione delle province. Più di 100 province non ce le possiamo permettere. Vanno abolite. Nei territori con almeno 500.000 abitanti si può eventualmente lasciare alle Regioni la facoltà di istituire enti di secondo grado per la gestione di funzioni da loro delegate.

Con la riforma Boschi le province spariranno dalla Costituzione ma non dalla circolazione, così come con il ddl Delrio si svuotano di consiglieri ma non di competenze. Con il nuovo assetto le province cambiano pelle ma non sostanza. Anche i risparmi non sono notevoli, riguardano essenzialmente il costo della classe politica, a fronte di nuovi costi incerti: “Nell’immediato, i risparmi effettivamente quantificabili sono di entità contenuta, mentre è difficile ritenere che una riorganizzazione di così complessa portata sia improduttiva di costi”, dice la Corte dei Conti.

 

6. L’unione fa la forza: mettiamo insieme i piccoli comuni. I comuni sono il vero pilastro dell’amministrazione tra i cittadini, ma 8100 sono troppi, e tanti tra loro troppo piccoli per gestire i servizi che dovrebbero erogare. Mantenendo salvi i presidi locali e la rappresentanza dei centri minori, dovrebbero raggiungere attraverso unioni o fusioni una dimensione minima di 5.000 abitanti.

Su questo tema il ddl Delrio interviene ampliando le funzioni che i comuni possono esercitare in forma associata e incentiva la fusione di comuni, ma senza vincoli e obblighi i comuni continueranno ad essere 8mila e ad essere troppi.

 

7. I partiti organizzino la democrazia, non siano enti pubblici. Il finanziamento pubblico va abolito o drasticamente ridotto e in ogni caso commisurato al solo rimborso delle effettive spese elettorali, condizionandolo al fatto che i partiti abbiano statuti democratici, riconoscano effettivi diritti di partecipazione ai propri iscritti e selezionino i candidati alle cariche istituzionali più importanti con le primarie. Favorire il finanziamento privato sia con il 5 per mille, sia attraverso donazioni private in totale trasparenza, tracciabilità e pubblicità.

Il finanziamento pubblico ai partiti è stato riformato in questa direzione dal governo Letta: il vecchio finanziamento diretto verrà abolito completamente entro il 2017 per essere sostituito da un contributo pubblico su base volontaria attraverso il “due per mille” e detrazioni per le donazioni. Anche la riforma Letta prevede che i partiti abbiano requisiti minimi di democrazia interna per ottenere i benefici pubblici.

 

8. Azzerare i contributi alla stampa di partito. Con internet, chiunque può produrre a costo zero il suo bollettino o il suo house organ. I contributi alla stampa di partito vanno aboliti.

La riforma Lotti punta all’abolizione del finanziamento pubblico ai giornali di partito e sindacato, mantenendo comunque un Fondo statale per il pluralismo e l’innovazione destinato alle imprese editrici cooperative e a chi investe nella trasformazione tecnologica.

 

9. Le camere di commercio regolino il mercato, non siano imprese. Le camere di commercio dovrebbero limitarsi a tenere il registro delle imprese, garantire il mercato e non spendere soldi nella promozione, nell’acquisto e partecipazione nelle imprese, nella formazione e quant’altro non sia missione pubblica di regolazione. Inoltre bisogna portare la democrazia nella scelta dei consigli direttivi. Gli organi di governo delle camere non siano nominati dalle associazioni, ma siano eletti liberamente e direttamente dalle imprese. Anche chi non è iscritto alle associazioni ha diritto di scegliere chi governa le camere di commercio. Il tributo delle imprese sia volontario non obbligatorio.

Accorpamento e riduzione del numero delle Camere di commercio, dimezzamento dei diritti camerali, dismissione delle partecipazioni azionarie non necessarie e maggiore trasparenza sui bilanci delle partecipate. Sono alcuni dei punti introdotti dal governo nella riforma della pubblica amministrazione.

 

10. Il consiglio inutile. Il CNEL, il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è un organo di rilevanza costituzionale, propone sostanzialmente pareri agli organi costituzionali, puntualmente ignorati. Istituito nel 1948, è entrato in funzione solo dieci anni dopo, trasformandosi rapidamente in una riserva per burocrati, in primis ex leader sindacali e imprenditoriali. In mezzo secolo, le sue proposte di legge sono state appena undici (11). Di queste nessuna ha mai avuto seguito o è stata seriamente considerata. Costa venti milioni di euro l’anno. Va abolito.

Con l'abrogazione dell'articolo 99 all’interno della riforma costituzionale, il Cnel viene definitivamente abolito.

 

11. Meno poltrone, più efficienza. Nel Paese ci sono 24.310 consiglieri d’amministrazione in aziende partecipate dal pubblico, al livello statale e locale. In tre anni bisogna dimezzare il numero dei consiglieri e la relativa spesa, sia accorpando le imprese sia privatizzandole, oltre che prevedendo un massimo di tre consiglieri per le aziende piccole e cinque per quelle grandi.

Il socialismo municipale (e regionale) con i bilanci in rosso delle oltre 10mila partecipate locali è stato il tema principale del lavoro di Carlo Cottarelli, ma l’allontanamento del commissario alla spending review insieme all’assenza di proposte incisive nella legge di stabilità mostra che il governo non ha le stesse preoccupazioni. L’esecutivo dice che si occuperà del tema con la riforma Madia della pubblica amministrazione, vedremo se con la stessa incisività cottarelliana.

 

12. Gli altri costi della rappresentanza. Anche le organizzazioni degli interessi (dai sindacati alle organizzazioni imprenditoriali) devono tornare a concentrarsi sulla loro funzione più propria: difendere i diritti dei loro associati. Quindi, le agevolazioni pubbliche di cui godono vanno commisurate alle effettive funzioni di rappresentanza che svolgono.

Mentre si continua a discutere di una legge sulla rappresentanza sindacale, il ministro Madia ha tagliato del 50% a partire dal 1 settembre 2014 i distacchi, le aspettative e i permessi sindacali.

 

13. Eliminiamo la classe politica corrotta. Lo strumento è una amnistia condizionata. Al rispetto di 5 punti: ammissione della colpa, indicazione di tutti i complici, restituzione del maltolto, impegno a non fare più politica. In caso di nuovo reato, la pena si somma a quella del reato oggetto dell’amnistia.

La proposta, anche per l’evidente difficoltà di attuazione e di compatibilità costituzionale, non è mai stata all’ordine del giorno. Appartiene alla fase più grillina e antipolitica della Leopolda, ormai superata.

 

14. Razionalizzare le missioni italiane all’estero. Definire una strategia di coordinamento della presenza militare all’estero in pieno accordo (e non in competizione) con l’Europa, per essere di maggior aiuto alle popolazioni e razionalizzare il costo d’intervento.

Il contesto di politica e sicurezza internazionale, tra terrorismo e migrazioni di massa, è profondamente mutato negli ultimi anni e quindi più che verso un ridimensionamento la tendenza è quella di un maggior impegno italiano nelle operazioni di peacekeeping (oggi su un totale di 11 mila militari impegnati per la difesa sono 4700 quelli impegnati all’estero in varie missioni internazionali).

 

15. Una strategia per il Mediterraneo in trasformazione. Siamo il paese europeo più vicino a una fascia di nazioni, dall’Egitto alla Libia, dalla Tunisia alla Siria, che sta vivendo un periodo tumultuoso nel quale la speranza della libertà si mescola con la paura di arretrare sul piano della libertà religiosa e della laicità dello stato. L’Italia dedichi una speciale attenzione a questi paesi aprendo sedi di istituti italiani di cultura, approfondendo gli scambi economici e culturali; offrendosi come un paese che può aiutarli nel passaggio alla democrazia.

Le cose sono cambiate notevolmente in Nord Africa e Medio Oriente rispetto alle attese che venivano riposte nelle Primavere arabe, sulle quali Renzi aveva aspettative molto positive, ma nonostante questo l’approccio più culturale che militare vive ancora oggi nella proposta di governo renziana e piuttosto che far fronte alla minaccia islamista inviando nuovi caccia e nuove truppe militari, anche dopo l’appello del governo francese, ferito al cuore il 13 novembre in seguito a un attacco islamista, il governo ha scelto di puntare ancora sul mix approccio culturale e politica diplomatica. Quanto durerà?

 

16. Cambiare la Rai per creare concorrenza sul mercato tv e rilanciare il Servizio Pubblico. Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai 1 e Rai 2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati. Il canone va formulato come imposta sul possesso del televisore, rivalutato su standard europei e riscosso dall’Agenzia delle Entrate. La Rai deve poter contare su risorse certe, in base ad un nuovo Contratto di Servizio con lo Stato.

La riforma del canone va nella direzione opposta, non si pagherà sul possesso del televisore e non sarà riscosso dall’Age, ma di fatto sarà sul possesso di un’utenza elettrica e si pagherà in bolletta. Non c’è traccia di riforma degli spazi pubblicitari e di privatizzazioni per Rai 1 e Rai 2.

 

17. Fuori i partiti dalla Rai. La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata sul modello BBC (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica.

È stata riformata la governance della Rai con una riduzione dei membri del cda e maggiori poteri all’amministratore delegato, ma sarà difficile tenere “i partiti politici fuori dalla Rai” fino a quando i partiti e la politica resteranno proprietari della Rai (e oggi il cda della Rai è Cancelli puro). E se si iniziasse a privatizzare? Vedi il punto precedente.

 

[**Video_box_2**]18. Portare il rapporto debito/Pil al 100 per cento in 3 anni. La crisi di fiducia nell’Italia sui mercati internazionali accresce i tassi d’interesse e il peso del debito, che si trasforma in maggiori tasse per tutti. Per alleggerire questo peso e ridare fiducia ai mercati dobbiamo riportare il rapporto tra il debito e il Pil al 100 per cento in tre anni. Questo può essere fatto attraverso: i) privatizzazione imprese pubbliche; ii) privatizzazione municipalizzate; iii) alienazione di parte del patrimonio immobiliare dello Stato (il valore di mercato degli immobili di proprietà pubblica è di 380 miliardi; di questi sono ci sono immobili liberi per un valore di 42 miliardi di euro. Questi ultimi, essendo inutilizzati, possono essere venduti subito. Sul resto si veda quello che serve effettivamente al servizio pubblico e l’eccedenza sia liberata e venduta. Creazione di un fondo immobiliare che si occupi della valorizzazione degli asset). iiii) imposta sui grandi patrimoni. Non solo questo riduce il debito, ma elimina gli spazi per il clientelismo.

Dopo due anni di governo Renzi il debito pubblico è oltre il 130%, lì era e lì rimarrà anche l’anno prossimo (scenderà sotto al 120% nel 2019 secondo il Def, ma includendo oltre due punti di pil in più di tasse dovute alle “clausole di salvaguardia). Le privatizzazioni (vedi il punto precedente) vanno a rilento a livello statale e sono imbullonate a livello locale (vedi punto 11). Il debito pubblico, anche se è oltre i livelli di guardia, non pare più un tema così importante visto che il governo ultimamente punta molto sull’espansione del deficit pubblico.

 

19. Riformare le pensioni per avere ancora le pensioni. Sulle pensioni si può, fin da subito, parificare l’età pensionabile delle donne con quella degli uomini, instaurando una finestra anagrafica unica di 63-67 anni per accedere al pensionamento con assegno proporzionato alla speranza di vita secondo coefficienti attuariali aggiornati annualmente. Accelerare il passaggio al sistema contributivo per tutti. Eliminazione delle pensioni di anzianità nell’ambito di un patto tra le generazioni. Parte dei risparmi ottenuti andrà utilizzata per finanziare l’azzeramento dei contributi previdenziali per i giovani neo-assunti.


Parte delle idee leopoldine sono state realizzate dalla riforma Fornero, ma il resto non è più all’ordine del giorno del governo. Da Cottarelli a Boeri tutte le proposte di ritocco delle pensioni per favorire la sostenibilità del sistema e il riequilibrio intergenerazionale sono state respinte dal governo: le pensioni non si toccano.

 

20. Nuove regole per evitare il cumulo delle pensioni.


Vedi il punto precedente.

 

21. Una rivoluzione copernicana per il fisco. Per tornare a crescere bisogna modificare il sistema degli incentivi. Oggi, il nostro Paese tassa i fattori produttivi e premia la rendita. Quel che serve è una rivoluzione copernicana del sistema fiscale che riduca la pressione sul reddito personale e sulle imprese e la accresca sugli immobili e sulle rendite finanziarie.

Sul fisco il governo è stato molto attivo, ma non pienamente coerente con lo spirito leopoldino: sono state ridotte le tasse sul reddito con il bonus 80 euro (anche se solo per una parte dei contribuenti) ed è stata aumentata la pressione fiscale sulle cosiddette “rendite finanziarie” (che poi sarebbero i risparmi) con l’incremento dell’aliquota sui redditi da capitale dal 20% al 26% (eccetto i titoli di stato fermi al 12,5%) e sui fondi pensione dall’11,5% al 20%. Sugli immobili invece con l’ultima legge di stabilità le tasse diminuiscono anziché crescere.

 

22. Abolizione dell’IRAP. Finanziare l’abolizione dell’imposta con il taglio dei sussidi alle imprese.

Niente abolizione. Nel 2014, con il decreto sul bonus 80 euro, era stato approvato un taglio del 10% dell’Irap (aliquota giù dal 3,9% al 3,5%) che però poi il governo si è rimangiato. L’esecutivo ha però successivamente abolito la componente lavoro dell’Irap, un taglio più consistente di quello precedentemente approvato e poi ritirato. La riduzione dell’Irap non è avvenuta in parallelo con il taglio dei sussidi alle imprese.

 

23. Uscire dal sommerso. Ridurre l’aliquota dell’IRES per le imprese che accettano procedure di accertamento rapido e maggiore trasparenza sui bilanci. Questo riduce gli incentivi ed aumenta i rischi a mantenere un’attività nel sommerso.

Renzi aveva prospettato con la legge di stabilità un taglio dell’Ires dal 27,5% al 24% nel 2016, ma il provvedimento è poi stato definitivamente rinviato al 2017 con la decisione di spendere 2miliardi in più in “sicurezza ed educazione” per la lotta al terrorismo dopo la strage di Parigi.

 

24. Le procedure per la crisi d’impresa come leva per la competitività del sistema. Gli imprenditori corretti danno lavoro e creano ricchezza per tutti, ma rischiano in proprio. Possono vincere e possono perdere. Quando perdono, vanno incoraggiati a gestire la crisi nel migliore interesse dei creditori e dei lavoratori. Occorrono regole che premino la correttezza e la trasparenza dei comportamenti e che consentano alle imprese che ancora producono ricchezza di ristrutturarsi e tornare sul mercato, nell’interesse di tutti. L’attuale normativa pone non pochi ostacoli agli imprenditori onesti ma sfortunati, e consente talvolta comportamenti opportunistici a danno dei creditori. Occorrono procedure moderne, che proteggano l’imprenditore in crisi ma lo obblighino a mettere tutte le carte in tavola, e che consentano ai creditori di decidere rapidamente. Procedure di crisi più efficienti aumentano la competitività del paese e la sua credibilità per gli investitori, anche stranieri.

E’ stata approvata una riforma del diritto fallimentare che da una parte rende meno attraente per i creditori il ricorso al fallimento e dall’altro riequilibra i rapporti di forza tra creditori e debitori nelle procedure di concordato preventivo, evitando un eccesso di potere da parte di questi ultimi anche con l’introduzione di elementi di concorrenza nel concordato.

 

25. No ai condoni. Nessuno condono edilizio né fiscale, neppure travestito da scudo per il rimpatrio dei capitali.

Sono da poco chiusi i termini per la voluntary disclosure, una procedura (di successo) che non è strettamente un condono fiscale, ma che comunque permette di far rientrare capitali illeciti godendo di sanzioni e penalità ridotte. Secondo i dati diffusi da Mef e Agenzia delle entrate sono emerse attività per circa 60 miliardi e sono stati raccolti circa  4miliardi di gettito.

 

26. Riformare gli ordini professionali. Bisogna abolire gli ordini professionali superflui e ricondurre i rimanenti a una funzione di regolatori del mercato e non di protezione corporativa per quanti esercitano già la professione. Bisogna arrivare all’abolizione delle tariffe minime e ulteriore riduzione dei vincoli alla pubblicità per gli studi professionali, in maniera tale che tutti abbiano la possibilità di farsi conoscere.

Non si è arrivati all’abolizione degli ordini né all’eliminazione delle tariffe minime né di tutte quelle barriere che limitano la concorrenza e la libertà d’impresa. Sulla rottamazione e la liberalizzazione degli ordini professionali è stato fatto poco.

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