Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e il 2016? Go big or go home

Claudio Cerasa
Il premier intende fare del 2016 il suo anno “decisivo”, ma per trasformare il referendum Boschi in un plebiscito sul renzismo bisogna frustare il cavallo dell’economia con riforme impopolari. Tre idee per un nuovo bipolarismo.

Go big or go home. In politica, si sa, una “partita decisiva” è un ossimoro per antonomasia e spesso i galleggianti nascosti nelle imbarcazioni dei partiti permettono di navigare anche quando il mare in tempesta sembra essere lì pronto a ingoiare il comandante della nave. Dire dunque che il 2016 sarà l’anno “decisivo” per Matteo Renzi rischia di suonare come una vuota formula politicista ma per una volta l’aggettivo “decisivo”, rispetto all’anno che si apre, si adatta come un abito su misura al corpo del presidente del Consiglio, specie alla luce della definizione esatta data ieri dal premier durante la conferenza stampa di fine anno a un concetto declinato vagamente alla Leopolda qualche settimana fa: “Go big or go home”. Senso: se non si vince il referendum del 2016, quello sulla riforma costituzionale, quello che porta il nome del ministro più rappresentativo del governo (Boschi), quello che permetterà a Renzi, in caso di vittoria, di allargare il perimetro del proprio partito e di aggiungere una “n” alla fine di “Pd” (Pdn, Partito della nazione), se non succederà tutto questo, se non si diventerà “big”, si andrà a casa, “home”, e tanti cari saluti a tutti.

 

Il ragionamento di Renzi ha una sua buona linearità e la sfida del giocarsi tutto al referendum non è solo una tattica preventiva per distogliere l’attenzione dalle elezioni amministrative, ma coincide con la volontà di creare, in un’epoca in cui i paesi si dividono fra tre o quattro grandi blocchi politici, un nuovo bipolarismo formato da due grandi partiti: il partito del sì, che nella testa di Renzi è quello che prova a cambiare l’Italia, contro il partito del no, che pur di cambiare premier è disposto anche a non cambiare l’Italia. La strategia è chiara e ha una sua robustezza di fondo. Ma se davvero Renzi intende fare del 2016 il suo anno “decisivo”, trasformando cioè il referendum sulla riforma costituzionale in un plebiscito sul renzismo prima ancora che sulla stessa riforma, ecco, se vuole fare tutto questo, il presidente del Consiglio dovrà accettare che il 2016 diventi anche l’anno utile per realizzare e mettere in cantiere alcune riforme importanti che sul breve periodo potrebbero presentare un conto in termini di consenso ma che sul medio periodo avranno invece la particolarità, oltre che di far ripartire il paese, anche di tracciare con chiarezza il confine del nuovo partito renziano (e il fatto che il segretario del Pd abbia scelto di considerare la Leopolda, e non il Pd, l’organo giusto per preparare la macchina referendaria indica che il 2016 sarà anche l’anno in cui il Partito democratico, nelle forme conosciute finora, verrà definitivamente superato).

 

Per cambiare l’Italia, si sa, bisogna essere disposti a perdere anche alcune elezioni e lo schema che Renzi deve necessariamente utilizzare per il prossimo anno è lo stesso adottato tra il 2014 e il 2015 con la doppietta, mica male, 80 euro più riforma del lavoro. A volte i soldi distribuiti a pioggia dal governo Renzi hanno avuto l’effetto di rimettere parzialmente in moto alcuni settori dell’economia (dopo gli 80 euro Renzi ha cambiato il mercato del lavoro) altre volte invece il do ut des (do soldi ad alcune categorie di italiani sperando poi che tra le altre cose quegli italiani mi diano un domani il loro voto) ha avuto solo un effetto di acquisto del consenso. Nulla di scandaloso, è la grammatica del populismo di governo. Ma per far sì che le mance renziane abbiano un secondo fine diverso da quello di comprare semplicemente consenso è necessario nel 2016 utilizzare i nuovi 80 euro e il consenso acquistato per esempio destinando 500 euro ai diciottenni per la cultura per mettere insieme delle grandi riforme impopolari.

 

[**Video_box_2**]Tre in particolare: riforma della giustizia penale, liberalizzazioni, contrattazione aziendale. Il 2016, infine, sarà anche l’anno in cui Renzi dovrà misurare una volta per tutte la sua capacità di essere un buon commander in chief, e l’intervento militare che nel giro di pochi mesi l’Italia guiderà in Libia insieme con la comunità internazionale sarà cruciale per capire se la narrativa renziana può essere declinata solo in presenza di eventi ordinari (il sangue e merda della politica) o anche in presenza di eventi straordinari (il sangue e fango della guerra). Nel 2015, riavvolgendo rapidamente il nastro del renzismo, il presidente del Consiglio ha commesso incertezze gravi su tre temi in particolare (immigrazione, scuola, banche) non riuscendo in più occasioni a dare un’identità al suo programma di governo (sull’immigrazione, Renzi è stato schiacciato dalla retorica salviniana; sulla scuola, Renzi è riuscito nella non facile impresa di mettersi contro un pezzo importante della storica base sociale della sinistra, il mondo dei professori, senza aver rivoluzionato come aveva promesso quel mondo; sulle banche, storia più attuale, ha contribuito a trasformare una piccola storia legata ad alcune banche popolari, e ad alcuni investitori, in una devastante crisi di sistema). Lo scotto di questi errori potrebbe spingere Renzi a rottamare il trapano renziano e ad adottare, per paura di andare a casa, home, improvvisamente il cacciavite lettiano, cercando mediazioni su mediazioni e non più rottamazioni su rottamazioni. Ma non ci sarebbe errore più grande. Nel 2015 il governo ha liberato il cavallo dell’economia italiana senza però essere ancora riuscito a farlo correre.

 

Il 2016, se vogliamo far nostra la metafora, dovrà servire a frustarlo, il cavallo. E se è vero che il referendum di fine anno sarà qualcosa in più di un referendum sul ddl Boschi, ma sarà in toto un referendum sul renzismo, è anche vero che senza una forte e vigorosa frustata all’economia (liberalizzazioni, riforma della giustizia, contrattazione aziendale, oltre ovviamente a una politica industriale che faccia dimenticare rapidamente il disastro Ilva) le possibilità che Renzi non diventi “big” cresceranno a dismisura (no riforme, no crescita, no lavoro, no party). In questa sfida, il presidente del Consiglio è agevolato dal non avere veri avversari in campo e dall’avere invece “nemici” che ogni leader di governo sognerebbe di avere (Grillo Beppe, Salvini Matteo, Landini Maurizio) – ed è per questo che il 2016 sarà anche un anno non solo referendario ma probabilmente anche elettorale (febbraio 2017, in caso di successo referendario, e con l’Italicum approvato, sarebbe una buona data per andare a votare e non dare il tempo agli avversari per organizzarsi). Go big or go home, dunque. Sapendo che mai come il 2016 per Renzi varrà la famosa parabola dell’asino di Buridano – “Un asino affamato e assetato è accovacciato esattamente tra due mucchi di fieno con, vicino a ognuno, un secchio d’acqua, ma non c’è niente che lo determini ad andare da una parte piuttosto che dall’altra. Perciò, resta fermo e muore”. L’Italia di Renzi, nel 2016, sarà più o meno così. Go big. Or go home. E stavolta sul serio, forse.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.