John Maynard Keynes

Caro Ferrara, non aver paura di Keynes, né della sinistra

Giorgio La Malfa
“Oggi, dove si pone il discrimine fra destra e sinistra se non sul confronto fra chi preferisce la mano invisibile del mercato e chi invece considera necessaria l’azione collettiva?”. Quel che condivido con Giavazzi (ad esempio le tasse non abbassate da Renzi). La sinistra e le armonie economiche

Giuliano Ferrara ha dedicato al mio recente libro su Keynes, e a me personalmente, un bell’articolo, ricco di riconoscimenti e di critiche. Gli sono grato per ambedue. Naturalmente un grande giornalista e un temibile polemista immerge le critiche in un involucro di apprezzamenti, così che difendendo le proprie idee si rischia di apparire irriconoscenti. E tuttavia le questioni poste da Ferrara non possono essere lasciate cadere.

 

Nel 1946, alla morte di John Maynard Keynes, Joseph Schumpeter, che non ne condivideva le idee ma ne riconosceva l’ingegno, fece un’osservazione molto acuta. Scrisse che le opinioni di Keynes sui difetti e i limiti del capitalismo erano già contenute nel 1919 nelle “Conseguenze economiche della pace” – il saggio sul Trattato di Versailles che lo rese celebre –  ma che solo nel ’36 con la “Teoria generale” Keynes riuscì a inquadrare quelle idee in uno schema di carattere generale.
Keynes riconosceva che il mercato offre uno stimolo poderoso alla produzione della ricchezza, ma in sé non è un sistema perfetto. Non garantisce né la piena occupazione, né una distribuzione dei redditi non troppo diseguale. Era necessario – pensava Keynes fin da allora – un intervento della mano pubblica per stimolare o per correggere il mercato.

 

La teoria economica del tempo, in cui lo stesso Keynes si era formato, non ammetteva questa possibilità: la “mano invisibile” del mercato di Adamo Smith assicurava il miglior risultato possibile; la cosiddetta legge di Say garantiva la piena occupazione; l’intervento pubblico poteva solo peggiorare i risultati, non migliorarli. Laissez-faire, laissez-passer – si diceva avesse risposto un commerciante francese alla domanda su cosa il governo potesse fare per loro.

 

Nel ’25 Keynes, in un viaggio in  Russia, era stato colpito dal fervore religioso del comunismo. Aveva concluso che per vincere la sfida – come lui si augurava – il capitalismo doveva essere non un po’ più efficiente, ma molto più efficiente del comunismo. Dopo la crisi del ’29, quando la disoccupazione in Inghilterra e negli Stati Uniti era giunta al 25 per cento e nel centro di Londra si vedevano gli operai in coda per un piatto di minestra, Keynes aveva denunciato l’inutilità di una teoria economica che nel mezzo della tempesta sapeva solo ripetere che “passata la bufera il mare sarebbe tornato calmo”.

 

Da questa reazione morale era venuto l’impulso a riflettere sul funzionamento dei sistemi di mercato. La “Teoria generale” è il frutto immenso di questo sforzo di pensiero. Per questo, la storia della sua composizione riveste un interesse straordinario. Essa testimonia – come scrisse Keynes nella Prefazione – “una lunga lotta per sfuggire ai modi abituali di pensiero e di espressione ed alle vecchie idee che ramificano per quanti di noi sono stati allevati in esse in tutti gli angoli della mente”.
La caduta del Muro di Berlino ha sancito la fine del comunismo come sistema politico e come organizzazione economica. Ma il comunismo non è stato sconfitto dal capitalismo dell’800, bensì un sistema molto diverso, trasformato dai sistemi di sicurezza sociale, dalle politiche keynesiane, dall’antitrust, dall’azione dei sindacati. Questo non deve essere dimenticato. Invece, il pensiero di Keynes è stato accantonato. E così, i mercati sregolati hanno scatenato la crisi del 2008 e la moneta unica europea, nata con regole pre-keynesiane, costringe Draghi a fare dei salti mortali per governare l’euro con buon senso.

 

Il mio libro difende l’idea che si possa e si debba guidare e correggere il mercato attraverso l’azione collettiva. Cinquanta anni fa, quando studiavo economia, essere di sinistra voleva dire battersi per la fuoriuscita dal capitalismo. Del resto, perfino un conservatore come Schumpeter aveva scritto che il capitalismo non poteva sopravvivere e che una qualche forma di socialismo appariva inevitabile. Se non si era socialisti, si era di destra, sia che uno fosse seguace di Hayek sia che fosse seguace di Keynes.

 

Ma oggi, dove si pone il discrimine fra destra e sinistra se non sul confronto fra chi preferisce la mano invisibile del mercato e chi invece considera necessaria l’azione collettiva?

 

Ferrara capisce benissimo tutto questo, ma ha paura che torni fuori la sinistra. Ho grande ammirazione per lui. Non dimentico il coraggio di uscire dal Pci che appariva ancora potenzialmente vincente, per affrontare una lunga traversata nel deserto. E quindi capisco la sua diffidenza verso la parola sinistra.

 

[**Video_box_2**]Ma qui parliamo di altro. Di 20 milioni di disoccupati in Europa o di 3 milioni di disoccupati italiani che a questo ritmo troveranno lavoro – come ha scritto Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore – fra 35 anni. Se il Pd spiega che tutto va bene, mentre Fassina e D’Attorre senza vagheggiare il comunismo, chiedono lumi a Keynes, perché non dovrei essere d’accordo?

 

Perché – dice Giuliano – c’è Giavazzi. A proposito, Giuliano mi fa dire una cosa che non ho mai detto e non mi sognerei di dire. Giavazzi e io abbiamo avuto lo stesso maestro, Franco Modigliani, e abbiamo altro in comune. Per esempio siamo i soli ad avere spiegato che non è vero che il governo ha ridotto le tasse di 20 miliardi di euro. La riduzione rispetto al 2015 sarà delle sole imposte sulla casa – circa 4 miliardi compensate da aumenti di altre imposte. Il resto è la rinuncia ad aumentare l’Iva, che è come se un proprietario di casa dicesse all’inquilino che gli ha ridotto il canone in quanto non glielo aumenta. Giavazzi e io concordiamo anche che serve un deficit più forte per fare ripartire l’economia.

 

C’è un dissenso invece riferito a un libro fortunato di Giavazzi e Alesina nel quale sostenevano che la sinistra dovesse essere liberale. Capisco le buone intenzioni ma mi sembra pericoloso passare da Marx a Bastiat, il cantore delle armonie economiche. Dobbiamo tenere bene a mente tutta la lezione del Novecento e in essa Keynes ha un posto assolutamente centrale, nel campo del pensiero economico e nella riflessione politica.

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