Denis Verdini (foto LaPresse)

Il Mugello, il Fogliuzzo, i pm criccaroli e un fuoriclasse di nome Verdini

Giuliano Ferrara
Il caso Verdini è semplice: senza di lui non ci sarebbe il governo Renzi, staremmo ancora ad armeggiare con il cacciavite di Enrico Letta, e Berlusconi sarebbe da tempo nelle mani di Salvini senza aver nemmeno provato a esercitare, con il famoso connubio del Nazareno, il suo lascito migliore.

Il caso Verdini è semplice: senza di lui non ci sarebbe il governo Renzi, staremmo ancora ad armeggiare con il cacciavite di Enrico Letta, e Berlusconi sarebbe da tempo nelle mani di Salvini senza aver nemmeno provato a esercitare, con il famoso connubio del Nazareno, il suo lascito migliore. Senza di lui non avremmo buona o cattiva una legge elettorale né un incipiente sistema monocamerale. Tuttavia il Cretino Collettivo si appresta a trattarlo come un Razzi qualsiasi, un “responsabile”, cioè un opportunista senza princìpi, la solita manfrina del voltagabbana eccitata dai voltagabbana ideologicamente fedeli a un solo padrone, non come noi arlecchini della politica possibile. E la magistratura d’assalto, ovviamente, cerca da un po’ di sbatterlo in galera.

 

Ho conosciuto Verdini nel Mugello, dove mi ero recato per la “malandrinata” contro Di Pietro che tanti cuori perbene fece palpitare di sdegno infinito. Stanarlo e intimidirlo almeno un poco era una di quelle cose per le quali è valsa la pena di vivere. Tra un anno è il ventennale. Di Pietro era al culmine della sua popolarità di crociato dell’anticorruzione, Prodi e D’Alema padroni d’Italia – era il 1996 – lo avevano candidato per l’Ulivo in un collegio blindatissimo, dove Pino Arlacchi, illustre sconosciuto alle folle, aveva avuto il 71 per cento e Tonino ebbe il 71 per cento. Anche la mia Giustina, bassottina sempre rimpianta e che mi accompagnò al seguito della pimpante First Lady per tutta la campagna elettorale, due mesi faticosissimi, avrebbe avuto in quella lista il 71 per cento. La mia lista e quella del compianto Sandro Curzi furono invece battute con onore. La destra mi votò poco e di malavoglia perché mia moglie fumava i beedies, sigarini indiani profumati regolarmente scambiati per canne. E perché un amico di Sofri, che gli spiegava il caso giudiziario e storico come lo vedeva lui, era uno strano candidato per An. Mi tolsi però la soddisfazione da ex comunista di invadere le Case del popolo e spiegare agli attoniti becerocomunisti che stavano per votare un fascista di dubbia moralità politica, feci un meraviglioso comizio nella piazza principale di Sesto Fiorentino, protetto dalle SS locali di An e rivolto a un pubblico appena più folto di quello che a Bologna volle seguire la mia crociata sull’aborto, tra uova e bottiglie d’acqua e sassi e bombe carta. Non ho poi voluto infierire, quando Di Pietro nella sua ambizione sbagliata gli fece cadere un governo, ai compagni dell’Ulivo, si spostò a destra e a manca, infine crollò sotto il peso della sua crassa demagogia e dei suoi cari (“Di Pietro e i suoi cari”: era il titolo di un fortunato librettino del Foglio in difesa a falange della Prima Repubblica, una testata nel basso ventre del mitologico pm, quando la dea di Report ancora mangiava la minestrina di semolino). Craxi da Hammamet ammirava il mio spudorato carattere (morì con il Foglio sul comodino) ma criticava la mia ribalderia senza costrutto, non gli piaceva perdere. Diciamo che a Di Pietro non mancarono i sostenitori: alla fine anche Feltri, Paolo e Silvio Berlusconi approfittarono della circostanza per far ritirare un pacchetto di querele del pm al Giornale con quattrocento sporchi milioni e una lettera di bacio della pantofola al carnefice resa pubblica il giorno prima delle elezioni.

 

L’Italia è un paese moralmente distratto e politicamente cieco, mi dissi, e procedetti oltre.

 

Ma Verdini c’era, non ha mai mollato, mi ha reso umanamente sopportabile, con la sua bella moglie Fossombroni e i suoi ragazzi, quella quantità di carciofini sott’odio che fui costretto a ingurgitare. In contraccambio, l’ho quasi rovinato. Lo introdussi nel circuito di Berlusconi, lui repubblicano storico e uomo della provincia moderata, e fece una splendida carriera in Forza Italia e nel Pdl, partendo dalla conquista della Toscana, finendo braccio destro del comune amico, semplice deputato che faceva i deputati, non ministro che faceva i ministri, attore politico spregiudicato e “al coperto” delle politiche del Cav., uno scudiero leale e violento che i governativi enricolettiani li avrebbe fucilati sul posto. E per questo entrò nel mirino dei pm che lo fecero criccarolo, pitreista, consentendo alla Banca d’Italia di cancellare la sua Banchetta cooperativa gestita in modo eccellente sebbene familiare, e svenderla al peggiore offerente, tutte cose da lui sopportate con stoica pazienza. A un certo punto gli regalai anche il 15 per cento del Foglio, dopo una piccola crisi societaria, mi diede una mano con le fidejussioni bancarie e qualche versamento d’emergenza dai conti personali di un uomo che si era fatto ricco in tempi prepolitici, niente di drammatico, e sopra tutto gli sono rimasto amico.

 

[**Video_box_2**]Come dicevo all’inizio, Verdini è uno dei pochi amici di Berlusconi che si è impegnato su una politica. Amico di Renzi e del Lampadina, si fece tramite al momento opportuno di una impresa istituzionale da sballo. Nulla pretendeva, salvo il potere di controllo sui fatti condiviso con il suo signore e padrone, e alla fine è stato estromesso dalla corte, succede, sputtanato, allontanato, nemmeno troppo con le buone maniere (salvo lo stile amichevole di Berlusconi in persona). Ora si dice che Verdini voglia insistere sui suoi progetti, sulle sue idee, sulle sue combinazioni di potere e interessi, cioè sul fare politica. E’ senatore, ha qualche amico, pensa che arrivare al 2018 con riforme fatte sia la soluzione migliore, vuole favorirla nello spirito del Nazareno. La batteria calunniosa invincibile è già pronta, batteristi non mancano. Non è uno stinco di santo, capita a tutti di non essere svizzeri, ma è un talento dell’organizzazione e del realismo. Ha il gusto sovrano dello sberleffo: il suo magnifico figliolo si è tolto da solo le ganasce dell’auto in pieno centro, a Firenze, per il gusto dell’impunità, e un altro po’ l’arrestano (la famiglia Verdini, tra pappagalli, gatti, cani mordaci, ville fiorentine, auto lunghe tredici metri, biglietti da cinquecento, pranzi luculliani, affetti e ospitalità per tutti, sarebbe degna di una serie tv).

 

Al contrario di molti altri berluscones, vanitosi pluripremiati e urlatori, il Denis si sente e si vede poco, tiene a distanza i giornalisti, ora è un pochino inciccito dallo stress ma con dieci chili in meno somiglia a Clark Gable. Chiunque legga i mattinali di Questura che si pubblicano nel nostro paese pensa che sia il Delinquente, chiunque lo conosca e sappia delle cose politiche pensa esattamente l’opposto: non è un moralista ma è moralmente a posto e politicamente in ordine. Per primo sa che queste sono cose difficili se non impossibili da spiegare, ma se ne impipa. Io responsabile? Io portatore d’acqua? Io ascaro? Dite quel che volete, ma levatevi di torno.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.